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Psicopatologia della vita di Tre sorelle con la regia di Konchalovsky

[rating=4] “Sentite, tutto quello che sapevo, l’ho scritto”. E che vuoi dire più? La risposta, condita da una punta d’esasperazione – ma anche d’apparente coloritura ironica (sembra di vederlo, il dottor Cechov, che atteggia il labbro a mezza risata sotto i baffi) – che l’autore in persona diede agli sconcertati attori del Teatro d’Arte di Mosca, che gli avevano chiesto un senso, una guida, un qualsiasi suggerimento che permettesse loro di metter sulla scena quella Cosa (commedia, diceva lui, dramma, loro ribadivano), la risposta, dicevo, è delle più belle che si possan dare e chiuderebbe prontamente l’argomento. In tal modo, come direbbe un collega dell’autore – ma delle parti nostre, mediterranee e solari – tutte le interpretazioni son possibili, una, nessuna e centomila; e se questo vale per registi e attori, che volete che vi dica il vostro recensore ch’è andato a veder queste Tre sorelle al Mercadante, nel cuore caldo di Napoli un bel dì di giugno, recitate nella lingua di Checov con italici sovratitoli, per la regia del talentuso Konchalovsky? Tutte le interpretazioni son valide e possibili? O nessuna? È proprio così?

Ebbene, io partirei dall’incontrovertibile fatto che riguarda il distocico parto del lavoro del medico Cechov: dopo aver scritto la prima versione e aver dato la citata risposta agli attori, si chiude in albergo per un mese e finisce i primi due atti, poi da Nizza spedisce gli altri due e non partecipa mai alle prove, fino alla prima. Fatica, svogliatezza, lentezza: Cechov somiglia ancora una volta ad un personaggio di Cechov. Ma in quell’anno stesso, il 1901, un altro medico scrive qualcosa che forse potrebbe aiutarci a capirne di più: il dottor Freud dà alle stampe Psicopatologia della vita quotidiana. Ora, non è che uno vuol mettersi a fare (psico)analisi spicciola ad uso di generosi (e prossimamente annoiati) lettori, ma come ignorare la profonda attenzione che l’autore e chi ben si dispone a interpretarlo – come in questo caso – annette a ciò che vive dentro – nel profondo inconoscibile dei pensieri informi – e che si manifesta, certo, anche all’esterno, ma per vie traverse e oblique, a volte tortuose e vaghe, sempre espressione più del non-detto che dell’effettivamente pronunciato e orgogliosamente dichiarato? Sicché chi mette in scena il suo teatro deve fare innanzitutto i conti con quella miriade di gesti e parole e tic e canzoncine e trasalimenti che emergono da un mondo sotterraneo – a volte dimenticato (come le fattezze delle persone un tempo care che il tempo rimuove) – e in mezzo alle quali ti ritrovi a nuotare, come tra pericolosi relitti alla deriva. Psicopatologia della vita quotidiana, appunto, a cui ti sforzi di dare un senso e una ragione.

"Tre sorelle" di Konchalovsky

Così ciò che ti colpisce prima d’ogn’altra cosa è il tono frenetico e pazzo dei primi due atti: e pensi alla “commedia”, al vaudeville che l’autore ostinatamente e contro ogni ragione sosteneva aver scritto. E così le battute – tutte, anche le più strane, o quelle che l’abitudine t’ha fatto sentir recitare con tono romantico e sognante o addirittura leggermente depresso del Cechov della steppa nebbiosa e innevata – le battute, qui, risplendono nuove come fossero (re)inventate e (ri)scritte. E comprendi. O pensi di comprendere, perché poi t’accorgi sgomento che tutto quel luccichìo, quel vociar pazzo e brillante, quel ballar da soli, quell’ostentata e folle felicità carica delle felici promesse che la vita prepara in un certissimo altrove, non è, in fondo, questa ostentata profezia di futura gioia, nulla più che diverso lato della medaglia, altra fase della stessa malattia, altro polo d’eterna oscillazione del pendolo emotivo: ciclotimia menzognera e incrudelita che lassù t’innalza tra le stelle per poi (ri)gettarti a terra, come l’altalena del piccolo prologo con le tre sorelle che lancian fiori al rallenty. E l’eccesso del tono, lo star sopra le righe (o sotto, come nella successiva fase degl’ultimi atti) è accentuato dall’artifizio della pedana, centro focale dove si svolge l’azione principale, ma attorniata dal resto della scena, dove pure si svolgono – contemporaneamente – azioni complementari e tuttavia necessarie: un piccolo palcoscenico, dunque, su quello più grande, lente d’ingrandimento dell’entomologo autore, metateatro accentuato dal montaggio delle scene, negli intervalli brevi, a sipario aperto, mentre si proietta un filmino falso-amatoriale con intervistine agli attori che ci dicon la loro sul personaggio da essi stessi interpretato e sulla poetica di Checov, giusto per ricordare allo spettatore che di teatro si tratta, non già di realtà (…della stessa sostanza dei sogni). E il vaneggiare sobrio (nel senso di non-alcolico) di Cebutykin (strepitoso Vladas Bagdonas) dell’ultimo atto (nulla esiste a questo mondo, noi non ci siamo, non esistiamo, ci pare solamente di esistere…) non fa che confermare la distonia dispercettiva.

Quando passi poi a raffrontar mentalmente l’idea che in te s’annida di quel dato personaggio – frutto non sempre eccelso delle tante rappresentazioni e delle molteplici letture – con ciò che vedi, ti porta, il confronto, ad ulteriori riflessioni: e così l’Olga della bravissima Larisa Kuznetsova l’avresti sì immaginata un po’ rigida e precocemente avvizzita – pur coi suoi scarsini ventott’anni dell’inizio della commedia – ma non l’avresti certo detta isterica come invece risulta giustamente all’idea del regista, tutta gridolini e accentuate mossette e recitar teso e sull’acuto perenne: son certo gl’inascoltati suoi severi appelli a renderla così; e il mancato matrimonio, che un po’ rappresenta l’incarnazione dei suoi espressi e mai soddisfatti desideri  – ogni personaggio ne ha uno – trova modo d’esprimersi qui in franco e talora imbarazzante interesse per Vershinin (un disincantato e furbo Alexander Domogarov) che culmina in un goffo e un po’ artificioso bacio. È come se il regista avesse infatti deciso di rendere espliciti e palesi – facendoli (ri)emergere dagli abissi incosci in cui eran serrati (come un bellissimo pianoforte di cui si è smarrita la chiave) – tutta una ridda d’ipotesi, supposti pensieri, non scontate fantasie che lo spettatore si pone – potrebbe porsi – ogni volta: così è per questa infatuazione d’Olga per Vershinin, così, in modo ancor più drammatico, per la dichiarazione d’amore di Solionyj (un introverso e canagliesco Vitaly Kishchenko) all’attonita e spaventata Irina (una superlativa Galina Bob), che si risolverebbe addirittura in  stupro, se non fosse per l’arrivo di Natalja (l’odiosa ma realista e volgare quanto basta Natalia Vdovina). E che dire dell’irrisoluto e cieco e illuso barone Tuzenbach (il bravo Pavel Derevyanko)? Lo sapevamo, certo, bruttino e idealista, ma non l’immaginavamo (o forse semplicemente non ci piaceva l’idea di così supporlo) infantile e infatuato al punto dell’idea sua folle di lavorare, sì da far tutti – amorevolmente realisticamente sprezzantemente – scoppiare in fragorose risate non appena egli pronunzi la fatidica parola “lavoro”. E, certo, sapevamo Mascia (la bella e bravissima Yulia Vysotskaya) essere la più tormentata e inquieta e inappagata delle sorelle; la conoscevamo insoddisfatta moglie del noioso professor Kulygin (un sorprendente Alexander Bobrovsky), non pensavamo essersi innamorata al punto da gettarsi ai piedi “dell’uomo suo” nel finale ultimo.

Ecco, la noia – che si nutre sorniona e sommessa di chiacchiericcio e solitari, di fumose elucubrazioni filosofiche su imponderabili futuri, prendano essi l’azzurro colore delle magnifiche sorti e progressive o quello rosso del glorioso reparto operaio nella fabbrica di mattoni, la noia che ingrassa e impingua tutti i personaggi, questa noia non è altro, come diceva Calvino, che “sfasamento rispetto alla storia, un sentirsi tagliati fuori con la coscienza che tutto il resto si muove: la noia di Recanati come quella delle Tre sorelle non è diversa dalla noia di un viaggio in transatlantico”. E il regista sottolinea questo noioso isolamento: la casa dei Prozorov mostra ben chiuse le sue finestre e le sue porte; perfino quando, come nell’atto ultimo, la casa s’apre sul giardino, ciò che vediamo è solo fittissima muraglia d’alberi, come fosse una fortezza: dall’esterno, certo, giungono echi lontani e una guarnigione arriva, in città c’è il carnevale, l’emergenza di un incendio, un duello lungo il fiume, una guarnigione parte… echi, solo echi che andando via Rode sente perfino il bisogno di salutare. Ma, soprattutto, quei muri formidabili stanno lì ad impedire che gli abitanti della casa possano veramente allontanarsi, anche quando abitano altrove, come Mascia fin dall’inizio, o come Olga alla fine: non importa, purché il cuore rimanga qui, prigioniero per sempre qui, imputridisca qui, qui dove aleggia ancora – mostruoso e vivo, pur se sotto diversa forma – lo spirito implacato del Padre e dove ancora s’aggira – immacolata reminiscenza – lo spirito fedifrago della Madre. Perché loro sì, i “grandi” sanno le risposte alle infinite domande mai poste dai “bambini”, sanno il senso della vita, sanno.

Di giorno in giorno, di chiacchiera vana in chiacchiera vana, aspettando l’inconcludente e millenaristica palingenesi (A Mosca! A Mosca!) passa la vita: e arriva l’autunno e l’ultimo atto, ch’è calco e simmetria del primo: la tensione nella recitazione è massima, l’emozione prende alla gola, e – subito prima del rito liberatorio e dionisiaco dell’applauso finale che scioglie la tensione e accomuna finalmente pubblico e cast – Olga incita le sorelle a vivere. È il famoso finale di Tre sorelle, perentoria richiesta di senso, mentre Cebutykin insiste nel suo già affermato non-sense: il regista sceglie a questo punto di proiettare le immagini della guerra prossima ventura, in assoluta coerenza con la già citata esigenza di rendere esplicito ciò che nella partitura – pardon, nel copione – è inconscio e implicito: il silenzio del pazzo di Gogol, poco prima invocato è figura dell’assordante silenzio dei Padri: genera mostri, e sussurri, e grida. Ma qui s’inizia già una diversa storia.

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