Home Teatro Maturina Fantesca: acqua di rose e anguilla all’arancia in salsa sapiente

Maturina Fantesca: acqua di rose e anguilla all’arancia in salsa sapiente

[rating=2] Una casa pronta per essere abbandonata, ovunque soltanto teloni bianchi. Si aggira per le stanze una donna apparentemente indaffarata: è Maturina la fantesca di Messer Leonardo Da Vinci. Attende gli eredi per consegnare loro l’eredità di messere, gli scritti all’allievo Francesco Melzi e i ritratti su tavola a Jacopo Caprotti. E a lei, serva fedele, due scudi e due vesti.

Improvvisamente Maturina si accorge del pubblico, pensa prima che siano incaricati del banco di Genova, poi messi dei due eredi venuti a riscuotere l’eredità, infine semplicemente “pellegrini”, passati di là per una sosta prima di proseguire lungo il cammino di Compostela. E così la fantesca incomincia ad intrattenere questi viaggiatori venuti da terre lontane, magari da quelle Indie scoperte più di 20 anni fa.

E incomincia a raccontare annedoti domestici, dicerie e riflessioni venute fuori dalla lunga consuetudine in casa con Leonardo. Il padrone suo aveva sempre la mente distratta in mille pensieri e guardava la natura per carpirne i segreti. E delle sue “dipinture” quasi si dimenticava, occupato com’era a rompersi la testa nei suoi matematici ragionamenti.

E così tanti quadri venivano lasciati a metà, come quella Monna Lisa, che lei sempre copriva. Per non rovinarla, s’intende. No, in verità era perchè “quella donna” la guardava, era un sortilegio, la imbarazzava profondamente e quindi la velava. E lei Maturina si preoccupava giustamente che da un mese a l’altro lui non avesse di che pagarle la settimana.

Era contento il padron suo che ella sapesse leggere perchè così poteva lasciarle qualche nota scritta per la spesa. Ma una volta era accaduto che gli occhi le erano caduti sugli scritti di messere e allora lui aveva inventato uno strano modo di scrivere. E’ sì, quel suo modo di scrivere era nato a causa sua. Ma lei non vi aveva colpa nessuna, perchè il suo intelletto da curioso qual era doveva essere nutrito. E poi erano li occhi suoi dispettosi che si erano intrattenuti.Tutti quei fogli, tutti quei ragionamenti, lei avrebbe voluto fissarseli in testa, per non perderli mai, per portarli sempre con sè.

Una sosta nel Rinascimento, un genio guardato dagli occhi di una donna del popolo, una donna che rivendica la sua autonomia di pensiero.

E sì perchè Maturina, fra una ricetta dell’acqua di rosa e un’anguilla arancia, vuole raccontare ai pellegrini il suo personale punto di vista, ora sul mondo, ora sull’uomo. E le parole del suo padrone si mescolano con detti popolari e metafore prese in prestito dalla cucina e forse proprio per questo più vere di mille ragionamenti sofisticati.

Maturina-DellaFonte gioca magistralmente con il suo pubblico che coinvolge sin dalle prime battute in toscano cinquecentesco: li critica per gli abiti un poco raffazzonati coi quali vanno in giro, cerca di vendergli delle tele di Messer da Vinci e infine lo disorienta quando un finto spettatore sale sul palco per proporsi come servitore in casa sua e incomincia uno scambio di battute tra i due.

Ad un testo teatrale non del tutto “solido” si accompagna invece un linguaggio fedele alla lingua del cinquecento letterario toscano che si districa agilmente tra epitesi e raddoppiamenti, con un vocabolario che mescola il lessico del volgo a quello dei signori, risultando comprensibile e musicale. E con questa lingua avvolgente lascia al viandante un frammento della sua eredità: Perchè tu, viandante “una volta aver provato l’ebrezza del volo, quando sarai di nuovo coi piedi per terra, continuerai a guardare il cielo”.

NESSUN COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here

Exit mobile version
X