[rating=3] Il sipario è aperto sulla scena ancora buia: si distingue però chiaramente una enorme ruota di roulette che, a mo’ di smisurato lampadario (dopo vedremo sulla sua “pancia” anche le luci che si accendono in sequenza, a simulare il ruotare della pallina) sta in cielo a regolare il destino degli uomini, perlomeno dei suoi fedeli, i servi della febbre del gioco. In circolo, al di sotto della grande ruota, alte poltrone di vimini con impresso un numero, rappresentano evidentemente le caselle con i numeri, che in questo caso identificano le persone, visto che su ogni poltrona, vedremo dopo, siede un personaggio. In un cerchio ancora più esterno, proprio sul fondo del palcoscenico, una schiera di musici in frac attende l’inizio dello spettacolo. È il mio bel San Carlo, per una volta lontano da musica e melodrammi, a ospitare Liturgia zero, riduzione de Il giocatore di Dostoevskij di Alexander Zavyalov e Valery Fokin, che ne cura anche la regia, per la produzione del Teatro Alexandrinsky di San Pietroburgo: ghiotta occasione per gli appassionati del teatro russo che, come già nel recente passato qui a Napoli, hanno avuto modo di immergersi per due ore in uno spettacolo originale, sicuramente diverso da come avremmo potuto realizzarlo noi italiani. È in verità una riflessione già fatta l’estate dell’anno scorso, in occasione della messa in scena delle Tre Sorelle e di Zio Vanja nella nostra città, anche allora con registi, attori, maestranze russe e recitato in lingua originale: colpisce l’espressività degli attori, che recitano sul serio – non è un modo di dire – con tutto il corpo, esaltando una estrema fisicità che supera le barriere della lingua, al di là dei sottotitoli, per restituirci un perfetto sguardo sull’animo russo, certo esotico per noi, ma perfettamente comprensibile e fruibile. E poi un quid di evidente diversità, che, solo con molta approssimazione, potremmo definire “leggerezza”, ben lontana dalla seriosità con cui spesso registi e compagnie italiana affrontano la “russità”.
Il giocatore è il romanzo che Dostoevskij scrisse nel 1866 dettandolo a tempo record (28 giorni), oppresso dai debiti di gioco, alla giovane stenografa Anna Grigorievna Snitkina, che l’anno dopo diventerà sua moglie: libro galeotto, evidentemente, non certo autobiografico ma sicuramente scritto distribuendo un po’ di sé non solo nel protagonista Aleksej Ivànovic, ma in tutti i personaggi: soprattutto autobiografica è la distruttiva voglia del gioco e dell’azzardo, così confacente, pare, all’anima russa, e che pervade, permea e impregna tutto il romanzo. Così, anche nella pièce di Fokin, il gioco domina fin dalle scenografia, come abbiamo detto, incarnandosi nel gran Moloc della roulette, vero demone ammaliatore che decide i destini dei poveri uomini, parlando, anzi cantando, per voce del croupier che, con piacevole voce di soprano, emette, sotto forma di numeri, le implacabile sue sentenze di vincita o di sconfitta, di felicità o d’angoscia. Uomini e donne che popolano il racconto passan la vita loro appesi ad un inesplicabile e imponderabile evento che dovrebbe (o potrebbe) verificarsi, cambiando per sempre la vita loro, sia una vincita al gioco, sia l’eredità d’una vecchia parente laggiù a San Pietroburgo, sia l’amore che potrebbe infine manifestarsi e rendere veramente felici: felicità che gira, come quella roulette, inafferabile e liquida come l’acqua che scorre: nel frattempo passano essi gran parte della vita loro, seduti nelle semoventi poltrone di vimini di cui s’è detto, quasi a sottolineare l’indolenza dell’anima russa, posta qui a confronto, proprio in questo romanzo, con i tedeschi, gran lavoratori, i francesi, fascinosi e imbroglioni, gli inglesi, affidabili e affabili, gli italiani, tutti apparenza e superficialità: il che sembrerebbe – e sul serio potrebbe diventarlo – un gran festival dello stereotipo e del luogo comune se il tutto non venisse salvato dalla genialità del grande scrittore e della sua scrittura disadorna e scarna.
Ma andiamo con ordine. La vicenda si svolge in Germania, in una località termale chiamata – nomen omen – Rouletteburg, dove il protagonista Aleksej Ivànovic è precettore dei giovani figli d’un attempato generale che in vecchiaia s’è invaghito perdutamente d’una avventuriera francese, Blanche. Il generale ha anche una figliastra, Polina, di cui è innamorato Aleksej, ma che invece ama l’inaffidabile e vanesio francese des Gieux; Aleksej gioca: per vincere e risolvere i suoi problemi, certo, ma anche per Polina, per aiutarla nelle sue difficoltà economiche: la famiglia è infatti in attesa della morte della vecchia nonna che dovrebbe risolvere tutti ii problemi con una cospicua eredità. La nonnina, tuttavia, lungi dal mostrarsi con un piede già nella fossa, si presenta un bel giorno ai parenti nella città tedesca, e vince, puntando ripetutamente sullo zero (di qui il titolo della pièce), contro ogni legge della statistica e della probabilità, prendendo gusto al gioco.
Non passerà molto tempo, tuttavia, perché anche per la nonna la sorte cambi e provochi una seria perdita di dodicimila rubli; a questo punto la nonna se ne torna in Russia e, di fronte alla rovina, Blanche abbandona il generale ormai spiantato. Polina e Aleksej hanno un lungo colloquio, poi il giovane gioca, gioca fino a vincere la cifra spropositata di duecentocinquantamila rubli, che offre a Polina: temendo che lui voglia in qualche modo comprarla, la ragazza fugge, lasciando Aleksej nella disperazione:quando, passato diverso tempo, dissipata tutta la favolosa vincita e ridotto in pessime condizioni, il giovane saprà che Polina, che probabilmente l’ha sempre amato, lo attende in Svizzera, non saprà o non potrà altro che rimandare ad un ipotetico “domani” la rinascita e il cambiamento che mai avverranno.
La dipendenza dal gioco è trattata dal regista tal quale qualsiasi altra dipendenza da sostanza, per cui molto somiglia, il giovane Aleksej della pièce, ad un qualsiasi tossicodipendente dei nostri giorni, perfino nelle movenze e nel procedere: la consapevolezza, che pur è presente nel personaggio, l’avvertenza della pericolosità delle sue scelte e del danno che inevitabilmente provoca a se stesso con il suo comportamento, non è tuttavia motivo sufficiente per mutare le proprie rovinose scelte, anzi lo carica e lo appesantisce di fatalismo oscuro e illogico, d’irrazionale senso del sacrificio che, pure, eleva il sentimento e l’impulso: l’enorme roulette del cielo sempre più assume i connotati di una gigantesca spirale che, anche visivamente, avvolge il protagonista e lo trascina sempre più verso il basso. Perfino l’amore si trasforma in sentimento distruttivo, che annienta l’altro abbattendo se stessi, in un terribile e silenzioso crescendo. Ottimi gli attori: Sergey Elikov, Igor Volkov, Era Ziganshina, Sergei Parshin, Vasilisa Alekseeva, Polina Tepliakova, Elena Vozhakina, Olesia Sokolova, Ivan Efremov, Viktor Shuralev, Aleksandra Bolshakova, Sergei Denisov, Igor Mamai, Tikhon Zhiznevskiy, Aleksandr Polamishev, Andrei Marusin, Sergei Sidorenko, Mikhail Beliavskii, Anton Shagin, e i musicisti: Timofei Gavrilov, Filipp Baiandin, Dmitrii Zotin, Anton Popov, Andrei Ogorodnikov, Aleksandr Shcherbakov. Scene e costumi sono di Alexander Borovsky, le coreografie di Igor Kachayev, mentre il disegno luci è stato curato da Damir Ismagilov. Come già accennato, lo spettacolo è in lingua russa con sovratitoli in italiano, in esclusiva italiana per la stagione del Teatro Stabile di Napoli.