Torna a Napoli Arturo Cirillo, in questi giorni al Teatro Mercadante, ancora con Molière, la Scuola delle mogli, prodotta dallo Stabile di Napoli insieme a Marche Teatro e Teatro dell’Elfo: grande attesa e grande divertimento del pubblico, che ha riempito la sala del Teatro. Con L’Ecole des femmes, Molière mette alla berlina l’illogicità e il destino fallimentare del potere assoluto, del governo delle menti, attraverso la metafora della moglie asservita in tutto al marito. Moglie ideale, secondo molti, certo secondo l’attempato protagonista Arnolfo che rinchiude la futura moglie in perfetto isolamento, lasciandola ignorante e ingenua, pronta solo alle sue voglie e ai suoi desideri. È facile vedere, nella vicenda, i legami evidenti con una importante tradizione letteraria che da Boccaccio e poi Straparola arriva a Scarron, a Cervantes e Calderón, tuttavia il grande commediografo trasfigura la vicenda, fa diventare la rappresentazione di una miseria umana, quale in effetti è, nuovo e potente paradigma della commedia.
Spesso l’aver colpito nel segno porta a critiche feroci, e così fu anche in questo caso, e l’Autore si troverà obbligato a rispondere attraverso un’altra pièce, La critique de l’Ecole des femmes. La pièce ebbe, in ogni caso, un notevolissimo successo di pubblico ed essa rappresentò il vero inizio della fortuna del commediografo. Oggi, al di là degli aspetti autobiografici – nel febbraio 1662 Jean-Baptiste Poquelin, in arte Molière, sposa Armande Béjart, la giovane figlia della sua ex compagna, Madeleine Béjart e qualche mese più tardi, il 26 dicembre di quello stesso anno l’Ecole des femmes andrà in scena al Théâtre du Palais-Royal – e delle notazioni legate alla società del secolo barocco – che potrebbe farcelo apparire a prima vista un testo datato, nell’utilizzo insistito e voluto di struttura e meccanismi propri della classica commedia plautina, narrazione esasperata di vizi e virtù di un mondo scomparso – sono gli obliqui tragitti interni alla scrittura, i giochi psicologici, i legami sottili che legano indissolubilmente i comportamenti messi in scena con il teatro postumo, da un lato – Casa di bambola, in primis – con la letteratura – l’Alice’s Adventures in Wonderland di Lewis Carroll – e addirittura con la cronaca – che ci riporta casi come quello di Natascha Kampush, rapita a dieci anni – che, alla fine, ci interessano da più vicino, la carne e il sangue, in fondo, che emerge con grande chiarezza e onestà nella rappresentazione che ne dà Arturo Cirillo.
«M’immagino una scena che è una piazza, come in una città ideale, con la sua prospettiva, la sua geometria, ma dove dentro all’abitazione principale, vi è una lunga scala di ferro che porta ad una camera che è come una cella, una stanza delle torture, e un giardino che assomiglia anche ad una gabbia». Si parte di qui, da questo mondo a metà tra cronaca e magia, per raccontarci il mondo d’oggi. E Cirillo, argutamente, spiritosamente, intelligentemente, tramuta agilmente il vetusto testo in gingillino dal fragile e delicato splendore che vive costantemente in precario equilibrio tra farsa e tragedia, varietà e pochade, dramma borghese e commedia dell’arte, rimanendo tuttavia, nonostante i secoli si siano addensati, fedele ad alcuni capisaldi del teatro barocco.
Così, memore di ciò che Paolo Sarpi prudentemente affermava, circa la necessità d’usar la maschera in tempi di Controriforma, continuano tutt’oggi, fedeli alla propria essenza che – nomen omen – s’identifica col nome, Arnolfo (Arturo Cirillo), protettore dei cornificati, Agnese (Valentina Picello), patrona della castità, Orazio (Giacomo Vigentini), l’amoroso della Comédie-Italienne, a incarnar gli antichi archetipi, impegnandosi, insieme ai servi Alain (Rosario Giglio) e Georgette (Marta Pizzigallo), in una recitazione esasperata, sovraccarica di umori e ritmo, scattante e quasi precipitosa, in cui non sai se star più dietro all’incontenibile felicità agitata e ingenua fin quasi alla scempiaggine dell’Agnese o al saltello tracotante che scema, scoprendosi innamorato respinto, in umbratile e trattenuta collera d’Arnolfo o, ancora, ai disinvolti volteggi adolescenziali da giovane Holden rinsavito e innamorato di Orazio.
È facile, allora, vedere in controluce a tali maschere tutto l’universo d’uomini e cose tra il momento in cui Molière scrisse la commedia e l’oggi della nostra contemporaneità, fin troppo agevole, quasi banale, riscoprire nelle fattezze d’Arnolfo che vuol farsi, ormai, chiamar Del Ramo, il Totò-Sciosciammocca di Miseria e nobiltà che – “albagìa, albagìa” – si spaccia per principe di Casador, o nella parrucca che a un certo punto Arnolfo dona ad Agnese, icona del prossimo acquisito status di moglie, lo stesso simbolo biondo delle bambole umane de La donna perfetta, tutte belle, sottomesse, perfette casalinghe e perfette amanti “solo dei loro mariti”, oppure nel blusotto e nel berretto da baseball indossato al contrario, come James Dean in Gioventù bruciata, le stigmate d’una incommensurabile eppur fisiologica incomunicabilità tra vecchi e giovani.
E, certo, in questo continuo vedere in trasparenza i tempi dell’oggi incrociare il secolo barocco, aiuta senz’altro la traduzione di Cesare Garboli, dimostrando anche qui la sua risaputa intimità con gli dei, restituendoci un testo libero dalle ragnatele e dai paludamenti che il tempo e gli uomini sempre riescono a frapporre tra noi e la piena godibilità dell’arte, come pure i costumi di Gianluca Falaschi che ci riconsegnano intatto il sapore dell’estrosità pomposa del vestir dell’epoca, insieme alla vivacità frizzante della Commedia dell’arte, negli abiti dei ricchi borghesi Arnolfo e Crisaldo, estesa anche alla blusa d’Orazio, senza tempo, ma a vistosissimi e coloratissimi motivi floreali, e nelle infinite sfumature di rosa della veste d’Agnese, contrapposti alla trasandata ordinarietà bianconera della servitù.
E poi, naturalmente, la scena, disegnata da Dario Gessati, immutabile per tutta la durata della pièce, come succedeva a quell’epoca, quando nacque l’arte della scenografia, in cui, oggi come allora, la scena girava su se stessa intorno ad un perno centrale, spinta a mano dagli attori e dai servi di scena: la casa di Agnese, vero, significativo capolavoro, nella sua scarna, stilizzata semplicità, ma che raccoglie, in così poco spazio, un’enorme densità di simboli e significati, diventa, alla fine, la vera, autentica protagonista di questo lavoro scintillante, una casa senza porte ma dalle infinite aperture, con un’unica, piccola finestrella in alto, come un’antica feritoia in un ben munito castello, cela al suo interno scale e botole, nascondendo sotto l’apparenza graziosa e accattivante della veranda assolata e tranquilla la sua vera natura di prigione dell’anima, in cui troppo spesso la donna, gingillo del maschio, è stata chiusa per secoli, icona stessa della contraddittorietà e della pertinacia del desiderio.