Sebbene in pochi sappiano che gli studenti dell’Università degli Studi di Milano (“la Statale” nella vox populi) hanno a disposizione una propria compagnia teatrale – ad oggi quattro ragazze e due ragazzi – è tuttavia innegabile l’alta levatura di questo progetto, alle prese con testi difficili, impegnati e riflessivi, che si insinua nel tentativo, ben riuscito, di limare la divisione fra professionisti e dilettanti. Il fulcro della compagnia è un lavoro duro di sperimentazione e ricerca teatrale che se da un lato fornisce un solido collante tra gli attori, dall’altro è inevitabilmente motivo di una stretta selezione e scrematura in itinere.
Lo spettacolo in scena in questi giorni è “Mauser”, titolo riferito alla nota marca di armi tedesca, ospitato dall’Associazione culturale Studio Novecento di Milano.
Mauser di Heiner Muller è un capolavoro drammaturgico della Germania novecentesca, figlio legittimo dell’opera di Bertolt Brecht e dell’intenso e travagliatissimo fervore artistico nella Berlino della Repubblica Democratica Tedesca. Un testo che fa pensare, impregnato di consapevolezza storica e di dialettica marxista, eppure oggigiorno tanto estraneo dalla normalità di pensiero da risultare paradossalmente attuale. L’autore, Heiner Muller, è tutt’oggi considerato tra i più grandi del novecento e, ciononostante, resta tra i meno rappresentati, tradotti, letti.
La regia di Daniele Santisi non sceglie la via dell’attualizzazione, e forse nemmeno quella della personificazione. Se infatti il grande e grave tema portante del testo è il conflitto irriducibile fra individuo e comunità, la messinscena predilige una destrutturazione psicologica e simbolica che rielabora l’antico discorso di Antigone contro la Polis in chiave quasi psicanalitica e al contempo astratta.
Da una parte un coro, che nel testo dovrebbe essere il Partito, lo Stato, la Rivoluzione e che invece qui è una torma di demoni tentatori, morsi e rimorsi della coscienza collettiva e della necessità: sono le quattro ragazze della compagnia, Erinni implacabili della comunità di destino umana.
I costumi sono neri, in armonia generale, ma quando alle ragazze è chiesto di impersonare le vittime della giustizia rivoluzionaria allora si spogliano, restando in costume aderente color carne, come manichini ancora più impersonali di prima, e nudi.
Le movenze dei corpi sono sempre esplicite e provocatorie, la gestualità quasi barocca, eppure è sulle singole parole e sulle frasi ricorrenti che si concentra il fuoco della rappresentazione. Gli attori cesellano la dizione con intensità emotiva e ogni verso pretende la sua specifica eloquenza.
Del resto non sono parole banali e non ci sono frasi scontate, né vi è parossismo alcuno o pleonasmo: più che un testo teatrale pare uno spartito musicale.
Il confine fra dramma a melodramma si fa sottilissimo e perde equilibrio. Il coro di ragazze è di fatto diviso in due registri, grave e acuto, il personaggio dal volto umano suona al pianoforte una rassegna improvvisata dal minuetto classico al jazz, dalla ballata romantica all’atonalità dodecafonica, e tutti i personaggi usano ripetere alcune frasi intonando nenie monodiche o in sofisticati concertati in cui, a cameo, la ragazza russa recita in madrelingua con evidente suggestione del pubblico.
Non ci sono oggetti di scena, nemmeno il revolver del titolo, solo un pianoforte sulla destra.
A conchiudere l’azione teatrale una scenografia semplicissima ed efficace. Sfondo di quinte scure e sulla scena parallelepipedi scomponibili neri, spostati e combinati di volta in volta dagli attori stessi che ne vengono imprigionati o che, al contrario, vi montano in cima. L’attenzione dello spettatore è sapientemente catturata da punti di fuga facilmente individuabili nonostante le nevrotiche dinamiche che sconvolgono ogni sequenza.
Un allestimento da teatro studio, in relazione paritaria e centrale rispetto al pubblico, che perderebbe gran parte della propria forza in ampi spazi, su palcoscenici frontali.
Lo spettacolo, di breve durata, consegna al pubblico più domande che risposte, con un’eleganza ed uno stile sensibilissimi. Tutta la compagnia si distingue per bravura, senza eccezioni né preferenze: un gruppo affiatato e dalle grandi potenzialità.
Gli spettatori, coinvolti e sconvolti, hanno risposto con convinto e caloroso applauso, a nostro avviso più che meritatissimo.
La compagnia: attori Maya Castellini, Olga Egorova, Valeria Insogna, Federica Libretti, Alessandro Manfredi e Daniele Santini, regista Daniele Santisi, assistente regista Valeria Pagani, costumista e scenografa Paola Arcuria, luci e audio di Ornella Banfi, fotografia di Lodovica Bonelli.