Uno spettatore, durante l’intervallo, afferma che: “qui, non si è capito Čechov”. In effetti, questa è esattamente la sensazione suscitata dall’Ivanov firmato Filippo Dini, Premio Le Maschere del Teatro Italiano 2016 alla miglior regia.
Le interpretazioni del folto cast risultano cariche di pathos, forse troppo, e appesantite da una dizione non proprio perfetta (forse una scelta registica, quella di lasciare gli attori liberi di colorare le battute con inclinazioni dialettali; scelta tuttavia strana, che ha reso folcloristico un testo amaro e angosciante).
L’orrore che Anton Čechov, con orme soavi, riesce a imprimere a vicende banali e ordinarie, intimistiche e urgenti, qui, tramite tonalità esagerate e urlate, diviene una farsa sull’assurdità della vita.
Le voci degli attori si alternano senza grandi slanci, fatta eccezione per la risata esasperata e il gridare – entrambi aspetti sonori non piacevoli. Lo spleen, il malessere di cui il testo è intriso, risultano globalmente derisi e messi alla berlina, mentre i delicati tasti delle relazioni umane si sfogliano come colpi di scena in una telenovela brasiliana. Lei, lui, l’altra. La società intorno, ipocrita e maligna. I personaggi, ridanciani e patetici, muovono le mani e si spostano nello spazio secondo uno stile moderno, troppo.
Anna e Sasha (Sara Bertelà e Valeria Angelozzi), prima moglie e futura seconda moglie di Ivanov, possiedono una bella presenza scenica, e sono le uniche a marcare un mutamento nel corso della trama; ma patiscono tonalità senza respiro, e si adagiano su quelli che sembrano clichées corporei e recitativi – pose e ammiccamenti, entrate e uscite disparate, tante azioni che suonano vuote e stanche.
La scenografia, curata e cangiante, è sicuramente il valore aggiunto dello spettacolo, ma per parafrasare lo spettatore citato poco fa: dove è il grottesco di cui Čechov si fa artigiano umile e sapiente? Dove sono le crepe nascoste o le piccole faglie alla luce del sole di personaggi che non hanno forma definita e svelano contorni sempre nuovi?
Forse nei pochi momenti di silenzio, o nell’attimo di disperazione in cui Anna si aggrappa a Ivanov e cerca invano il contatto amoroso. Qualche istante sospeso c’è stato. Ma poi si è ricaduti nel realismo, quasi da fiction televisiva.
C’è una regista, della nuova generazione, che è riuscita nell’affrescare uno spazio e un tempo teatrali, in cui le novelle di Anton Čechov potessero galoppare come in una prateria che da immensa si fa improvvisamente un punto, giocando con chiaroscuri e movimenti ondulatori, dolore e fascino. Lo spettacolo in questione è Senza trama e senza finale, la regista è Carmen Giordano. Artista da tenere d’occhio, insieme alla sua Compagnia Macelleria ETTORE, che scava nel testo e lo porta naturalmente e artificialmente sul palco, in un contrasto che si fa bellezza. Registe non troppo illuminate dalle luci della ribalta, da non sottovalutare.