È un periodo interessante per il teatro italiano, in cui i figli raccolgono le eredità dei padri, mentre nuovi talenti si affacciano sulla scena e si formano nuove compagnie.
È il caso di queste Relazioni Pericolose, presentato in prima nazionale al Festival Teatrale di Borgio Verezzi, con Viola Graziosi, Giorgio Lupano, Silvia Siravo, per la drammaturgia e la regia di Giuseppe Argirò, produzione Teatro della Città – Catania.
Verezzi è quel borgo saraceno affacciato sulla Riviera di ponente che, con le sue case in pietra, la piazza e i caruggi, si fa teatro per l’intera estate, giungendo quest’anno al suo 58emo appuntamento con residenti e villeggianti, per la nuova direzione artistica di Maximilian Nisi.
Nell’allestimento che abbiamo visto, la Chiesa di Sant’Agostino fa da sfondo alla scena, che si apre su un sobrio interno dai pochi arredi in stile rocaille, segmentati plasticamente dalle luci: una toletta con scrittoio, tre sedie, un canapè, un paravento dorato, incorniciati da quinte bianche.
Relazioni Pericolose, senza determinante, tout court. Prive dell’articolo, si direbbero rapporti derubricati ad una ordinaria banalità del male. In realtà sono proprio le relazioni di Pierre Choderlos de Laclos, autore del romanzo epistolare scritto nel 1782, in cui si esprimeva una severa condanna morale del secolo XVIII, dal quale la civiltà europea sarebbe emersa profondamente cambiata. È un testo che nel Novecento ha dato luogo a numerose riscritture (dal film di Roger Vadim con Gérard Philippe e Jeanne Moreau, passando per Quartet di Heiner Mϋller, fino all’adattamento teatrale di Christopher Hampton portato sullo schermo da Stephen Frears nel 1988, con uno straordinario cast), segno che è vivo l’interesse di noi contemporanei per la vicenda, forse perché ci riconosciamo nello schema rituale dei suoi rapporti: il periodo che ci separa dalla stesura sembrerebbe avere normalizzato le nostre relazioni in un gioco di seduzione, possesso e abbandono. Oppure no.

L’opera racchiude la traccia per uno studio impietoso dell’animo umano, condotto in un’epoca in cui le scienze psicosociali erano di là da venire. Ne è oggetto la figura del libertino, qui declinato sotto la maschera femminile della Marchesa de Merteuil (impersonata da Viola Graziosi) oltre che maschile, il Visconte di Valmont (Giorgio Lupano): fuori dal contesto storico e nella loro accezione moderna, i protagonisti sembrano incarnare il ruolo del narcisista patologico, capace di volgere in tragedia la vita di donne e uomini, incappati nel suo cammino, e financo la propria. Lose-lose, una strategia perdente, come nella Ballata dell’amore cieco di De André.
“Gli agganci con la contemporaneità sono evidenti e riguardano la cronaca di ogni giorno: relazioni malate, a volte tossiche, dove si sperimenta il gioco del potere piuttosto che l’amore, relazioni che confluiscono verso un unico tragico risultato: la fine dei contendenti”, dice Argirò, che ci offre una regia tesa di questo marivaudage dagli esisti funesti.
In realtà la marchesa porta a compimento ed in modo sublime il ruolo le cui origini erano state rintracciate da Giovanni Macchia in uno scenario del Cinquecento, seguendo poi Tirso de Molina, Molière, Mozart-Da Ponte. Si dichiara “acrobata dell’inganno” nel decifrare la natura umana oltre la dissimulazione del secolo, quando osserva il suo prossimo, nel silenzio dell’ubbidienza femminile. In un mondo in cui la donna è relegata a essere subalterna, si ritaglia una parte da protagonista, con il proposito di dominare il genere maschile, per riscattare il proprio.
È appunto sul progetto di vendetta della marchesa, piccata per la perdita di influenza su di un giovane amante, che si ordiscono i fili della trama, in una challenge dall’esito mortale. Il gioco di ruolo ingaggiato con l’alter-ego Valmont sfuggirà di mano all’artefice, troppo impegnata a gioire della sua vanità.
Nel suo insieme il racconto è anche iniziazione alla conoscenza di sé e del proprio corpo, tramite l’esperienza amorosa, sotto diversi sguardi. Un disvelamento della sensualità, nell’epoca in cui emozioni e sensazioni sono occultate dal belletto. Il carteggio diventa per tutti strumento intimo d’analisi ed elaborazione dell’esperienza, oltre l’etichetta.
Ma possono anime che vibrano a frequenze così differenti riuscire a comunicare? Succede allora che Madame de Tourvel, inamovibile nella sua castità, venga travolta dall’amore per Valmont, cadendo in un deliquio senza riscatto; più che plausibile è Silvia Siravo, lacerata dal conflitto fra desiderio e morale, fino a morirne. Ci regala qualche momento di comicità farsesca Francesca Astrei, interprete del personaggio di Cécile de Volanges, invaghita dell’impacciato insegnante di musica, Cavaliere Danceny (impersonato da Vinicio Argirò): con il suo ingenuo entusiasmo è pura materia da plasmare all’educazione sentimentale dei due complici. Elisabetta Arosio è una madre sollecita che pure non riuscirà a salvare la figlia dal convento.
Mirabile Viola Graziosi nel ruolo che fu di Glenn Close. Ci consegna una marchesa amabile e spiritosa, pungente e spietata, dotata d’autocontrollo anche quando trasecola, alla notizia che l’unica grande passione di Valmont sia stata la rivale de Tourvel. È lucida nel guardarsi dentro, quando rivela la storia del suo disincanto, all’epoca del debutto in società. Giorgio Lupano è un Valmont risoluto, ma succube della maestra, di cui vanamente implora stima, amore e ricompensa.