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Il giardino dei ciliegi, da Čechov a Lidi, il teatro come allegoria del teatro

La terza tappa dell'ideale trilogia del drammaturgo russo per la regia di Leonardo Lidi in scena al Teatro Vascello di Roma

L'ensemble de Il giardino dei ciliegi regia Leonardo Lidi.

Il mio primo incontro con l’opera di Anton Čhecov, ormai parecchi anni orsono, fu proprio col Giardino dei ciliegi. Quella versione, così fiacca e sterile, non mi aveva colpito nell’allestimento. Forse poi un pensiero ancora acerbo mi impediva di apprezzare una pièce in assenza d’azione. Nel corso degli anni, fatta qualche doverosa esclusione (come non nominare l’immenso Ivanov di Dini?) le tante rappresentazioni di questa e altre pièce del drammaturgo russo, mi avevano perlopiù delusa. Per non dire annoiata. Strano, perchè a leggerlo Čhecov invece, si coglie veramente di tutto.

Leonardo Lidi, attuale candidato al premio Ubu con Zio Vanja, seconda tappa della trilogia dedicata al grande autore russo (la prima è stata Il gabbiano e l’ultima appunto Il giardino dei ciliegi) mi ha fatto capire il perchè di quelle antiche resistenze. Il “suo” Giardino dei ciliegi in scena al Teatro Vascello di Roma dal 3 all’8 dicembre 2024 e prim’ancora sempre al Vascello proprio Zio Vanja, sono fra le varie rappresentazioni di Čhecov (a cui ho potuto assistere) davvero in grado di restituire al pubblico tutto lo spessore dell’opera originale. E del suo autore.

Il talento registico di Lidi fa esplodere finalmente la tragica ironia che Čhecov riusciva a riservare a tutti i suoi testi. Lo fa soprattutto attraverso i personaggi. Grazie alla loro armoniosa coralità, che sembra muoversi sul palcoscenico sia come un’unico corpo, che in molteplici identità separate. Ciascuna portatrice della propria visione. Ma non solo. Le scene e luci del bravissimo Nicola Bovey che avevo avuto modo di apprezzare con Binasco ne Le sedie di Ionesco, si intrecciano con la scelta volutamente vintage dei costumi di Aurora Damanti e il suono di Franco Visioli. Tutto è funzionale e a servizio del testo. Cosa assai rara in teatro di questi tempi.

Ma andiamo con ordine. La storia com’è noto è quella di una grande tenuta ormai decadente con uno splendido giardino di ciliegi, su cui incombe però la scure dei tanti, troppi debiti accumulati dai proprietari. I due fratelli detentori della proprietà diventano con Lidi due sorelle, ma poco cambia. Nel pigro scorrere dell’ultima estate in quella vecchia casa di ricordi, lutti e sogni infranti, tutto si sgretola. La proprietà sarà venduta e un coup de théâtre rivelerà sul finale chi, acquistandola, avallerà lo “scempio” di villette unifamiliari al posto dell’adorato e “intoccabile” giardino.

Vecchia stagnante aristocrazia che si lamenta del suo disfacimento, di fatto alimentandolo, contro nuove scalpitanti classi emergenti che, parafrasando Hesse, non vedono l’ora di “far girare la ruota”. Ma pure ex servi contro “padroni”, tradizioni contro rinnovate istanze. In fondo l’archetipo di tutti i conflitti. Lidi immagina la grande villa come una balera in cui si consumano i destini di una famiglia incastrata fra passato e futuro, parimenti spaventosi, di cui è emblema Ljubòv Andrèevna. Fragile e allegra, malinconica e grottesca padrona di casa, perfettamente resa da Francesca Mazza.

Leonardo Lidi, regista del progetto Čechov.
Leonardo Lidi, regista del progetto Čechov.

Le fa da controcanto Orietta Notari, deliziosamente comica nelle vesti di sua sorella Lenja. Svampita e pregna di ridicola tenerezza, cede la battuta del fu Gaev a Ljubòv che dichiara con candore di aver sperperato tutte le proprie sostanze in caramelle. Figurarsi se davvero il giardino dei ciliegi potrà fare affidamento su tanta inutile superficialità. Centra invece lo spirito più amaramente umoristico di Čechov Massimiliano Speziani. Nel giardino dei ciliegi incarna il contabile Epichòdov, a cui trasferisce la verve irresistibile di Zio Vanja, di cui aveva vestito i panni ancora sotto l’egida registica di Lidi. Sempre in bilico fra disgrazia e parodia, ci lancia saltellando stilettate di pensieri paurosamente stimolanti, fra cui: “voglio vivere o voglio spararmi?”.

Altro personaggio chiave Lopàchin, magistralmente interprtetato da Mario Pirrello, vero architrave del racconto. Lui figlio di rozzi contadini e unico vero homo faber in mezzo a un grappolo di presunti intellettuali, che sembrano solo fissare la catastrofe in avvicinamento. Da solo ibrida l’anima abbandonata e desolante della tenuta e dei suoi abitanti, intonando Ritornerai di Lauzi, in un’atmosfera meravigliosamente kitch. Bravi tutti anche i “minori”. Se poi di personaggi minori si può davvero parlare. Ilaria Falini (una fantastica Vàrja), Giordano Agrusta (Piščik), Sara Gedeone (Anja), Alfonso De Vreese (Jaša), Christian La Rosa (Trofìmov), Tino Rossi (iconico maggiordomo Firs) e Angela Malfitano (Dunjàša).

In ultimo menzione speciale per Maurizio Cardillo, anima e voce di Šarlòtta. Ci accompagna lei(lui) piano verso il finale, dichiarando confusa e triste: “non so quanti anni ho e mi sembra sempre di essere giovane.” Praticamente l’aforisma di noi tutti adultescenti del terzo millennio. Un ensemble semplicemente unico, che regala agli spettatori la quintessenza della rappresentazione scenica dal punto di vista attoriale. Non c’è altro da fare che arrossarsi i palmi di applausi.

Che dire in ultimo di questa regia? Torna la piattaforma lignea di Zio Vanja che all’occorrenza si trasforma in bagnasciuga o tetto della dancefloor. Le lunghe tende della casa diventano panneggi di plastica, su cui scintillano le luci ghiaccio dei fari. Pesantissimi veli di Maya che in ultimo Jaša stacca uno a uno scoprendo la feroce nudità del teatro. È la caduta delle maschere, delle illusioni e proprio l’aitante giovane cameriere in qualche modo guida il carro della disfatta, già congedando crudamente la povera Dunjàša con un laconico: “chi ama non ha morale”. Resta solo qualche sedia di plastica prontamente sgomberata da Vanja e poi noi nulla più. Ma la pista della mediocrità è falsamente sgombra, presto sarà riempita da altri vuoti. Leonardo Lidi firma quest’ultima regia cechoviana con raffinatezza e audacia, offrendo alla pièce una finestra sul mondo contemporaneo.

Ancora Jaša ci regala in tal senso una perla. “Il nostro è un paese senza istruzione, la gente è senza morale e la noia è ovunque.” Ma parlava poi davvero soltanto della Russia del primo ‘900? Se posso immeritatamente eprimere un giudizio su questo lavoro, sarà proprio puntando sul suo carattere incredilmente attuale. Questa a mio avviso è stata la forza e la genialità della costruzione di Lidi. Il giardino dei ciliegi è proprio qui, davanti allo specchio mentre proviamo a guardarci meglio dentro, siamo noi. Ma ancora di più, per stessa ammissione del regista, il giardino dei ciliegi è il “nostro” teatro. Un giardino al quale si guarda sospirando al pensiero delle tante succose ciliegie di un tempo, ora pericolosamente minacciate dalla boriosa e ignorante avanzata di futuri villeggianti. Saremo in ultimo davvero in grado di salvarci dalle ruspe, o soccomberemo al colonialismo della mostruosità?

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Drammaturgia
Attori
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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il-giardino-dei-ciliegi-da-cechov-a-lidi-il-teatro-come-allegoria-del-teatroIl giardino dei ciliegi <br>di Anton Čechov <br>Traduzione: Fausto Malcovati <br>Regia: Leonardo Lidi <br>Con (in o.a.): Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Sara Gedeone, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna <br>Scene e luci: Nicolas Bovey <br>Costumi: Aurora Damanti <br>Suono Franco Visioli <br>Assistente alla regia Alba Porto <br>Produzione Teatro Stabile dell’Umbria <br>in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi

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