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Il Gabbiano attraversa Koršunovas

La Prima Nazionale Il Gabbiano, firmato Oskar Koršunovas, restituisce anima e corpo a Cechov. Con qualche accento melodrammatico di troppo.

[rating=4] Quando gli spettatori entrano al Teatro delle Tese, open space dell’Arsenale di Venezia (ex cantiere di navi da guerra, attualmente sede della Biennale Architettura), gli attori sono già in scena. Anche Heart and Soul dei Joy Division sta già suonando a volume altissimo, creando una seconda pelle fra lo spettatore e l’attore.

In pieno stile di Oskaras  Koršunovas, regista lituano fra i più acclamati al mondo, il palco è semi vuoto, tranne molte sedie e, successivamente, un divano e un tavolo. Un soffitto di pannelli a luce diffusa sovrasta la scena, luci che avranno una loro esistenza nel corso dei 170 minuti in cui si svolge l’opera. Opera accarezzata da pallore, sofferenza, ironia – sfregiata tuttavia da momenti di convulsione e di over-recitazione melodrammatica. La tendenza a toni sommessi e poi all’improvviso turbolenti, quasi urlati, mal si addice, a nostro avviso, al capolavoro dello scrittore russo; e per consonanza, viene da ripensare alla versione del 1977 di Marco Bellocchio: trasposizione televisiva de Il Gabbiano, dove un’impressionante Laura Betti nel ruolo di Irina Arkadina uccide gli standard recitativi nel famoso dialogo con Trigorin. Creando un indimenticabile vortice sospeso, dove la psicologia del personaggio stordisce. Un’ambiguità, tipica della stupenda attrice bolognese, che non è emersa in alcune scene cult de Il Gabbiano di Koršunovas; nonostante gli attori (tranne forse Agnieska Ravdo nel ruolo di Nina, tradita probabilmente dalla giovane età) abbiano giocato la parte con naturalezza, scontrandosi con il personaggio, in una lotta senza finale.

Il Gabbiano attraversa Koršunovas

Inizialmente fischiato alla prima rappresentazione nel 1895, Il Gabbiano è la storia di uomini e donne imprigionati in un destino asfissiante, dissanguati dai sentimenti, paralizzati dalla paura, in attesa di restare o scappare, amare o morire. Ma c’è anche chi si muove in equilibrio, come il dottore Sergeevič a cui molti si confidano, e che con Koršunovas acquisisce spessore. Qui è un medico ayurveda che sa comprendere Konstantin e la sua ricerca di nuove forme letterarie; un perno che aggiunge tonalità comiche e filosofiche allo spettacolo.

La timbrica dei quattro atti, con sfumature trasparenti o eccessive come luce al neon, lasciano vuoti da riempire, momenti in cui gli interpreti sono volutamente spaesati, quasi insetti impigliati. La sensazione pulsante è quella di una storia che si costruisce nell’immediato, in un tempo indefinito e sregolato. Un’immanenza fusa e confusa con il fato. E così i personaggi mutano, si trasformano, cambiano città e continente, ma tornano sempre alla casa che li attrae e spaventa, la casa sul lago. E il terrore della morte, la “paura animale”, come la chiama Cechov, non si estingue, e si concretizza nel colpo di pistola, nel suicidio di Konstantin.
Il sipario non cala, stavolta. Le parole de Il Gabbiano continuano, continueranno a ossessionare artisti e persone comuni, ancora per molto.

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