Leggevo da qualche parte, tempo fa, che Il deserto dei Tartari, uno dei libri più amati dalla mia generazione, suscita oggi presso gli adolescenti reazioni inaspettate: troppo lento, dicono molti, più agevole, addirittura, percorrerlo tutto a piedi, quell’affannoso deserto. Ho provato a darmi una ragione di questo sconcertante disinteresse per un autore come Dino Buzzati di cui, invece, ho divorato e (ri)divorato più volte tutto quanto c’era da leggere, trovandolo ogni volta sorprendente oltre ogni dire, ma una risposta vera, in realtà, non l’ho trovata. Forse, nonostante l’estrema difficoltà di rappresentazione di Buzzati – che condivide con alcuni altri, soprattutto contemporanei o quasi, la massima refrattarietà alla messa in scena, teatrale o filmica che sia – una pièce teatrale, mi son detto, può essere l’occasione buona per avvicinarsi a quest’opera, così in fondo succede ed è successo per tanti altri casi, non ultimo quello rappresentato, proprio per Il deserto dei Tartari, dal film che Zurlini realizzò più di quarant’anni fa, nel 1976.
In questo allestimento teatrale, dunque, che vediamo in questi giorni qui a Napoli, al Teatro Mercadante, il regista Paolo Valerio, che cura anche l’adattamento, profondo conoscitore di Buzzati, ha tentato l’intentabile, per molte ragioni: il romanzo è notoriamente decisamente povero di dialoghi, o meglio essi descrivono nient’altro che una realtà dell’apparenza che invece nasconde ben altro, così come la parte visibile di un iceberg: il resto, il preponderante sommerso, è flusso di coscienza, scavo psicologico, le immagini stesse, a cominciare dalla formidabile Fortezza, descrivono e decrittano un universo interiore più che oggettive realtà, una rappresentazione realistica forse ci porterebbe decisamente fuori strada.
D’altra parte, le immagini, comunque, e contraddittoriamente, hanno un vigore enorme nel romanzo, potentemente evocative di forze superumane, così la Fortezza, il Deserto, i Tartari, la Montagna, la Città, che insieme ad altre, immateriali ma parimenti vitali come il Regolamento, l’Esercito, la Guerra, vanno a costituire quella specie di Olimpo dove risiedono forze inumane, che appartengono al mondo supero degli dei, dove si decidono realmente, non in base a ragionamenti o affetti umani, le sorti degli uomini come Drogo. Valerio supera, o si augura di superare, l’ostacolo, a prima vista insormontabile, della rappresentazione, realizzando una modalità che unisce al realismo delle immagini – ci sono divise militari, fucili, suoni di tromba, una scena (di Antonio Panzuto) costituita da una struttura lignea di base con scale, pedane, ponti mobili – il carattere onirico e metafisico delle ambientazioni.
Ci sono, in questo spettacolo, infatti, alcune scelte felici: la prima certamente riguarda i disegni e dipinti di Buzzati, che il regista decide di usare, proiettandoli con inappuntabile scelta come sfondo all’azione: fungono da guida della nostra immaginazione, la precedono, la rendono concreta, anticipano i nostri sogni, pur non appartenendo certamente al novero del realismo, ma a quella di una surrealtà che, pur conservando una parvenza di collegamento alla tangibile sostanza della carne e del sangue, certamente se ne distacca, segregandosi dai nostri giorni con la stessa forza con cui l’anima si separa dal corpo, irraggiando una luce insolita quale mai ci potrebbe apparire, neppure nei sogni; e così le piante, i monti, i fiumi che la matita descrive, sembran intrecciati d’essenza difforme da quella umana: appartenenze diverse, pur conservando in comune origini e funzioni.
La seconda intuizione riguarda Giovanni Drogo e il suo attraversare il mondo: Buzzati che, com’è noto, scrisse il suo capolavoro nelle notti insonni e tediose “di guardia” alla redazione milanese del Corriere, ebbe a dire d’aver scelto, alla fine, l’ambientazione militare, perché disciplina e regole militari erano assai più rigide, più inesorabili che in qualsiasi altro ambito; in un ambiente militare, “la mia storia avrebbe potuto acquistare perfino una forza di allegoria riguardante tutti gli uomini”.
Valerio dunque fa interpretare Drogo a tutti gli attori della folta compagnia (Leonardo De Colle, Alessandro Dinuzzi, Simone Faloppa, Marco Morellini, Roberto Petruzzelli, Christian Poggioni, Stefano Scandaletti, lo stesso regista), di volta in volta facendo indossare al Drogo di turno il chiaro mantello d’ordinanza sopra la divisa, ottenendo così lo scopo di rendere manifesta l’allegoria di cui parla l’autore – Drogo è tutti noi, Drogo è ciascuno di noi – ma anche di concretizzare visivamente l’inesorabile trascorrere del tempo, perché Il deserto dei Tartari è principalmente poesia del tempo, dello spazio che si confonde con il tempo, della Fortezza che contiene tutti i possibili tempi che è dato all’uomo conoscere e comprendere, tempi paralleli che corrono insieme, che raramente s’incontrano, che scorrono apparentemente sempre uguali a se stessi fino alla morte: invecchiare non è che, lentamente, passar da un binario all’altro.
E poi le musiche (di Antonio Di Pofi), con il valore aggiunto dell’esecuzione dal vivo, aiutano ad entrare in un mondo come quello che abbiamo descritto, in bilico perenne tra realtà e fantasia, sogno e consapevolezza, rivelandoci soprattutto le nostalgie che il cuore si porta dentro, i rimpianti languidi, le accese fantasie: il pianoforte e la fisarmonica di Mario Piluso ci aiutano ad entrare in punta di piedi nel precario equilibrio del mondo di Buzzati, mentre la voce di Marina La Placa, che recita anche quel po’ di parte femminile che è presente in questo mondo pervicacemente e quasi totalmente maschile, ci introduce ad aspetti inediti: la musicista suona anche il theremin, strumento raro e difficile, dal timbro ricercato che, suscitando un moto di quasi contenuto orrore simula la voce umana, ci apre, con le sue sonorità sollecitate dall’agitarsi delle mani nell’aria, a quella follia latente che avverti tender sempre le frasi dello scrittore, pronte a rompersi in silenzio o grido, lacrima o risata: non dimentichiamo come il theremin sia imparentato con la più antica glassarmonica, strumento per tradizione associato all’umana follia.
Infine, rimaneva comunque l’ultima difficoltà, la pagina stessa di Buzzati, così ricca di rimandi e d’introspezione, così apparentemente robusta nel suo incedere sicuro, così tremendamente fragile, invece, nella sua più intima essenza, così da rompersi a qualunque pur timido tentativo d’analisi e traduzione: Valerio decide di lasciarla così com’è – una resa che tradisce il rispetto ma anche l’impotenza – e di farla “dire” da uno degli attori che, con voce “ufficiale” ce la trasmette, mentre le parole si formano alle sue spalle, dattilografate in maiuscolo sulla proiezione, monumento perenne alla scrittura di Buzzati: soluzione che sa un po’ troppo di docufilm televisivo, che informa, certo, ma non emoziona, non sorprende, che ci permette di guardare la pagina ma non di farcela vivere. Vediamo allora muoversi le vicende del libro sotto il nostro sguardo: se Drogo, giovane ufficiale di prima nomina, assegnato alla sua prima destinazione, si aspetta la guerra – non è forse un soldato? – sarà ben contento d’essere assegnato a Bastiano, fortezza di confine – e che confine, verso il deserto del nord, da dove tutto sanno vennero, in un tempo lontano come quello delle leggende, i Tartari – dove potrà farsi valere.
L’incontro, lungo la strada verso la fortezza, con un vecchio carrettiere assume sempre più caratteristiche oniriche: il vecchio ci appare dietro un velario, non sa di cosa si parli, è come se Drogo, e noi con lui, superassimo la soglia di un mondo alieno, altro: il primo contatto visivo con la Fortezza sa, appunto, di incantesimo, guardandone l’ancora lontano profilo attraverso uno spiraglio delle rupi nere di buio, illuminata dal tramonto rosso, inaccessibile, solitaria, separata, segreta, nella prima ombra della notte che sopraggiunge.
L’incontro, invece, con il Capitano Ortiz, assume, in tutto questo contesto, invece, valore di presagio: il Capitano assumerà, per il giovane Drogo, fin dall’inizio, i contorni di una discreta quanto virile e benevola paternità; inoltre, sul finire del romanzo, simmetrico a questo incontro, Drogo, ormai maturo ufficiale, incontrerà, presumibilmente nello steso punto perso tra le rocce, un nuovo giovane ufficiale di prima nomina, inverando così il rinnovarsi delle generazioni, dando un senso al tempo che passa, ai giorni grigi che si alternano alle notti buie. Lungo il romanzo, poi, non accade niente di memorabile – in questa vuota attesa messianica risiede, in uno, il senso della storia, la sua enorme difficoltà di rappresentazione al di fuori della pagina scritta, probabilmente anche la difficoltà di comprensione da parte delle giovani generazioni – tranne due episodi riguardanti la vita e la morte di due personaggi, due ufficiali come Drogo, Lazzaro e Angustina: due episodi speculari, facce di una stessa medaglia, spinte, su opposti versanti, a cambiare in qualche modo la propria sorte, a prendere in mano la propria vita e mutare il proprio destino.
Se Lazzaro infrange infatti le rigidità del Regolamento per cercare il proprio cavallo fuori della Fortezza – il regista lo traduce con una rottura della quarta parete, facendo sconfinare in platea l’attore –, Angustina forzerà, quasi per capriccio, il proprio fisico, per scegliere, in fondo, un’eroismo gratuito – rappresentato dal regista come un rimanere “appeso” alla gabbia della propria esistenza – ma in ambedue i casi pagheranno con la vita l’aver osato uscire dai binari prefissati, cui invece Drogo si atterrà fino alla fine, quando, malato, mancherà l’occasione di una vita, la Guerra finalmente arrivata, ma saprà farsi valere affrontando con un sorriso la battaglia finale, quella che conta sul serio, contro la Morte, che lo prenderà di lì a poco.
Nuoce, tuttavia, alla narrazione, la quasi totale assenza di chiare implicazioni metafisiche – ad eccezione degli stessi bozzetti di Buzzati – e un’eccessiva ansia, diremmo didattica, che spinge a estremamente chiarire, spiegare, precisare, render manifesto ciò che andrebbe lasciato all’intuizione, in ombra, nascosto, come un fiume carsico che risorge qui e là per scorrere serenamente pacifico e sotterraneo per la maggior parte dl suo corso, di cui si dà, furtivamente, qualche indizio. Non risiede forse qui il più intenso fascino dello scrittore? Senza, la pietanza, pur cucinata con grande professionalità e con le migliori intenzioni – le strade dell’inferno, come si sa, ne son lastricate – risulta, alla fine, tuttavia, un po’ insipida.