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Il Castello di Vogelod tra citazione e ironia

In scena al Teatro Nuovo di Napoli fino al 25 novembre, "Il Castello di Vogelod", regia di Fabrizio Arcuri, con Claudio Santamaria e i Marlene Kuntz

“Dal 1965 a oggi si sono definitivamente chiarite due idee. Che si poteva ritrovare l’intreccio anche sotto forma di citazione di altri intrecci, e che la citazione avrebbe potuto essere meno consolatoria dell’intreccio citato”. A qualcuno potrebbe sembrare strano o azzardato iniziare la recensione di questo lavoro firmato da Fabrizio ArcuriIl Castello di Vogelod, viaggio musicale nella pellicola di Murnau tra parole e immagini – visto ieri sera al Teatro Nuovo di Napoli – con questa frase delle Postille al Nome della Rosa di Umberto Eco, scritte nell’ormai lontanissimo – ahimè – 1983, tuttavia, come vedremo, l’operazione tentata dal regista, in una sfida per molti versi vinta, con qualche limite, si basa proprio su un assunto come questo.

Ma andiamo con ordine. Se non l’avete visto, andate su YouTube e lo troverete: Schloß Vogelöd, Il Castello di Vogelod è un ancora oggi godibilissimo film muto del 1921, firmato da uno dei pionieri del cinema, nella Germania espressionista che produceva capolavori visionari tra le due guerre, Friedrich Wilhelm Murnau, che lo diresse un anno prima del suo capolavoro, Nosferatu il vampiro. Il suo cinema è a metà strada tra espressionismo e kammerspiel, modalità espressive apparentemente opposte che però trovano felice sintesi in questo regista, dalle atmosfere ovattate, le luci smorte, la recitazione misurata, il simbolismo, l’interiorità: un cinema del tutto adatto, grazie alla capacità di creare raccolte e racchiuse atmosfere asfittiche e soffocanti, a rappresentare quello che oggi chiameremmo un vero e proprio thriller.

Ma con una particolarità, che risultava ben evidente ieri sera: il suo cinema era sorprendentemente – per i tempi – piacevolissimamente, intelligentemente, ironico, smontando e rimontando il meccanismo del noir, che è celebrazione e trionfo della congettura, della ricerca, al di là delle apparenze, di una presunta “verità”, presente fin dall’inizio, ma che si nasconde nell’infinito labirinto, strutturale e metaforico, della storia costruita. Già l’avvio, infatti è costruito da Murnau inserendo quelli che già allora, negli anni ’20 del Novecento, erano riconoscibilissimi come perfetti stereotipi, strumenti utilizzati proprio in funzione della creazione di uno stato d’animo particolare.

Così, in un Castello antico e tenebroso – esso stesso metaforica trappola per topi – si sono radunati, per una battuta di caccia alla volpe, diversi uomini d’affari; il tempo è pessimo, la pioggia e il freddo li costringe al chiuso, rendendo ancor più asfittico il soggiorno, finché arriva, non invitato, il conte Johann Oetsch, chiacchierato esponente della buona società, che però è in disgrazia in quanto sospettato d’aver ucciso il fratello per bassi motivi d’interesse perché questi, preso da mistiche ossessioni, meditava di donare ai poveri tutte le sue ricchezze. L’annuncio dell’arrivo della cognata di Oetsch, vedova del morto, oggi baronessa perché risposatasi con il barone Safferstätt, mette ancor più in imbarazzo gli ospiti, la stessa baronessa vorrebbe andar via ma si convince a rimanere sol perché si attende l’arrivo di un cappuccino da Roma, padre Faramund, consigliere spirituale del marito, preannunciato da una lettera.

Al suo arrivo, il frate si chiude in camera e riceve la baronessa, poi, alla fine di una giornata serena, grazie alla quale gli invitati hanno potuto finalmente cacciare, anche padre Faramund sparisce. Si sospetta che l’omicida abbia potuto colpire ancora e naturalmente i sospetti si appuntano sul già detestato Oetsch, che nega decisamente. Il giorno dopo padre Faramund si ripresenta e a questo punto la baronessa, non reggendo più la tensione, confessa al frate la verità: il marito è stato ucciso perché lei, una sera in cui la mania mistica del marito si era fatta vieppiù pressante, aveva confidato all’amico Safferstätt il bisogno di un gesto trasgressivo e diabolico che l’allontanasse dai buoni sentimenti: il barone l’aveva presa in parola e aveva portato alle estreme conseguenze il desiderio di lei, uccidendole il marito e convincendola successivamente a sposarla.

A questo punto il frate va in camera del barone costringendo anche lui alla confessione per poi, con un vero colpo di teatro, togliersi barba e baffi finti: il cappuccino altri non è che il conte Oetsch, finalmente scagionato; al barone non resta a questo punto che un colpo di pistola, alla baronessa la via del convento, mentre giunge al castello il vero padre Faramund. Come si vede, un vero e proprio noir, costruito secondo tutti gli stilemi del genere, abbondantemente condito con angosciosi ed espressivi primi piani, atmosfere caliginose, luce artificiale soffusa, costruendo una vicenda che bada bene a mantenersi lontanissima da ogni verosimiglianza e da qualsiasi realismo, facendo coscientemente, piuttosto, il verso a certo presuntuoso prendersi sul serio dei racconti di Agatha Christie o di Arthur Conan Doyle, espressione questi, invece, di completa fiducia in un positivismo fideistico e per certi versi intollerante.

Fabrizio Arcuri costruisce allora attorno al film una vera e propria scatola teatrale, sorta di camera ottica sul cui fondo viene proiettato integralmente il film, recentemente restaurato, completo di titoli originali in tedesco, mentre sul davanti, sulla non più metaforica o virtuale quarta parete, costituita da un velario, viene proiettata la sottotitolatura italiana ma pure tutto ciò che il regista ritiene utile, dall’inquadratura enormemente ingrandita, a un particolare della stessa, da luci o ombre vaghe a immagini con effetto di ridondanza che ripetono e amplificano l’emozione che la visione del film dovrebbe suscitare. Vediamo così questo spazio traslucido invaso dalla pioggia nel corso della tempesta, oppure dal fumo quando il barone fuma, oppure dalle fiamme dell’inferno quando la baronessa invoca un segno demoniaco, o, ancora, vediamo ingrandita la lettera con cui padre Faramund annuncia il suo arrivo.

In altre parole è come se il regista avesse messo tra virgolette l’intero film, come se tutto il lavoro teatrale fosse un’enorme citazione, accentuando e riflettendo, attraverso un enfatico caleidoscopio, l’ironia, rafforzando così l’estrema relativizzazione del mondo e delle cose, in assenza d’assoluti, anzi, usandola proprio per smascherare presunte assolute verità. La musica live dei Marlene Kuntz e la voce – e la presenza – di Claudio Santamaria sono elementi che concorrono a questo risultato d’ironico e beffardo disvelamento: nello spazio buio compreso tra il fondo – su cui si proietta il film – e la quarta parete che, alla fine, diventa, può diventare, se vogliamo, spazio libero di proiezione delle nostre manie o delle nostre fobie, in penombra, quasi sigillati nella bolla incerta d’un mondo di mezzo, si offrono tuttavia frammenti di verità, nella duplice performance “teatrale” (e dunque irrepetibile e unica, ogni volta diversa), musicale e drammaturgica.

Se la musica ci è sembrata talvolta accompagnare o accentuare l’emozione della vicenda che si andava dipanando, risultando un po’ ridondante nell’amplificazione un po’ ingenua dei vissuti, altre volte riusciva a distaccarsene, con sapiente umorismo. Di più ancora era la parola, comprensiva pure dei suoni di scena, a suggerire il modo giusto di cercare e trovare la corretta misura con cui osservare la vicenda, affidata alla saggia amenità dei toni di Claudio Santamaria, che eccelleva senza mai strafare, presenza discreta ma essenziale, pronto a sottolineare, con tono divertito ma non scettico né cinico, l’accentuarsi e lo scemar delle emozioni, riportando alla giusta dimensione teatrale ciò che rischiava di sconfinare, a tratti, nell’artificioso, meccanico o ripetitivo.

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