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Enrico IV e lo strappo nel cielo di carta

Al Teatro Mercadante di Napoli va in scena, fino alo 3 marzo, Enrico IV di Luigi Pirandello, diretto e interpretato da Carlo Cecchi

Nessuno può sapere come avrebbe reagito Pirandello se avesse assistito, ieri sera, alla rappresentazione del suo Enrico IV qui al Teatro Mercadante di Napoli, adattato, diretto e interpretato da Carlo Cecchi. Si sarebbe, magari, unendosi al pubblico, arreso all’umorismo pirandelliano, una volta tanto sfociato in farsa, benché dolorosa ed amara (“Chi l’ha detto che una farsa non sia seria?”); o, piuttosto si sarebbe offeso a morte con chi avesse osato contravvenire alle puntigliosissime didascalie sue, messe lì proprio per scoraggiare chiunque volesse contraddire il Verbo, sconfessarlo, amarlo al punto da tradirlo? Nessuno può saperlo, naturalmente, se non in una finzione – una “fiction” – teatrale, dove tutto, in fondo è lecito perché nulla è “vero”, scene e fondali sono menzogna dichiarata, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema menzogna.

Se, allora, per Pirandello il teatro è confessione, transfert analitico, esorcismo, rito liberatorio, ogni commedia, ogni dramma, parabola o tragedia che sia, svolge un diverso ruolo, ma sempre uguale nei suoi effetti ultimi, strettamente legato al dato biografico, assumendo spesso una vera e propria funzione catartica e terapeutica, è pur vero che, a partire dalla scelta di non compiere alcun tentativo di (ri)costruzione della realtà, s’aprono per chi il teatro lo fa, da una parte del palcoscenico, e per chi ne fruisce, da quest’altra parte della quarta parete, indicibili e inesplorati spazi d’ineguagliate metafore, di gioco e trastulleria infinita – e d’infinito piacere – sul filo d’una metateatralità che è come un fiume carsico ch’appare e scompare per risorgere più oltre, sempre uguale eppure sempre diverso.

Se Liolà è puro gioco d’evasione nel labirinto della memoria, se Così è (se vi pare) è il primo esercizio d’umoristico ragionamento sul nulla basato e che al nulla torna, se Sei personaggi in cerca d’autore è rito esorcistico che scatena e placa i demoni dell’anima, Enrico IV è tentativo, riuscito almeno in parte, di affrancarsi dalla psicopatofobia che lo afflisse per molto tempo, paura d’impazzire, di cader preda del mostro che aveva preso la moglie e che era ancora dentro di lui anche molto dopo la separazione. Non sorprende, dunque, che l’immagine della follia, così presente nell’opera di Pirandello, dopo Enrico IV non riapparirà mai più, e così pure l’immagine della moglie e della madre, così pervicacemente presente in tutte le opere precedenti. Enrico IV è un monumento alla pazzia perché, anche se è un falso pazzo, Enrico compie una vera e propria apologia della follia, ostentando in pubblico atto di penitenza: “Conviene a tutti, capisci? Conviene a tutti far credere pazzi certuni, per avere la scusa di tenerli chiusi. Sai perché? Perché non si resiste a sentirli parlare”.

Gli anni tra il 1916 al 1924 furono particolarmente felici per la sua drammaturgia: ventotto drammi in sette-otto anni, tra cui i suoi più grandi capolavori e, tra questi, appunto Enrico IV, in cui giocano temi grandi ed eterni, la scoperta del grigiore dell’invecchiamento, il contrasto tra verità e finzione, teatro e vita, il dilemma tra forma e sostanza, in particolare, nel mestiere dell’attore. Soprattutto, il lavoro è, da sempre, considerato opera per singolo attore: a partire da Ruggiero Ruggeri, per cui fu scritto, tutti i grandi del teatro hanno portato in scena questo Amleto moderno ed italico, Memo Benassi, Romolo Valli, Giorgio Albertazzi, Tino Buazzelli, Salvo Randone, Glauco Mauri e sicuramente me ne sfugge qualcuno, perfino Marcello Mastroianni che fu Enrico in un film di Belloccio del 1984, dal tono certo meno istrionico, più intimista e sommesso, più realisticamente immerso, in fondo, nel dolore e nel sapore della contemporaneità, frammentata, relativa, rifratta. Contemporaneità che ha, in tutta evidenza, ben presente Carlo Cecchi, che non cede al solito gioco dell’attore che in palcoscenico gigioneggia un po’, cedendo alla tentazione della pura follia del teatro, recitare guardandosi recitare – e compiacendosi nell’atto stesso di farlo.

Piuttosto che arrendersi a mettere in scena il “lungo, sterminato monologo, dove la funzione degli altri personaggi si riduce spesso a quella di dare la battuta al «grande attore» perché possa continuare il suo estenuante monologo”, mette le mani sul lavoro, riduce drasticamente il fiume in piena della verbosità pirandelliana, taglia i grandi soliloqui del protagonista cercando di farne un’opera più corale, dove il maggior spazio ai comprimari risulta in apparenza dilatato proprio perché grandemente dimagrita la smodata ridondanza del primo attore. Recita, oltre che “con” Pirandello, anche “contro” Pirandello, soprattutto contro le pirandellerie, i luoghi comuni della maschera e della verità, dell’unonessunoecentomila che diventano spesso falsi stereotipi dietro cui rifugiarsi quando non si sa che pesci pigliare, contro gli arnesi arrugginiti del teatro naturalistico al passo del secolo, il positivismo à la mode che s’inventa una “grave commozione cerebrale” come spiegazione “scientifica” del mistero dell’uomo, il melodramma che esaspera ed esagita le passioni, contro una lingua piena, ormai, d’arcaicismi, e che avrebbe necessità, come per un Autore straniero, d’una buona traduzione in lingua contemporanea.

Così, la rivalutazione dei personaggi si concentra soprattutto su due “nomi del tempo”, gli attori giovani che accudiscono, in tutto e per tutto, “il grande e tragico imperatore”: a Bertoldo (Davide Giordano), l’ultimo arrivato, appena uscito dall’Accademia, il compito di mettere alla berlina il mestiere dell’attore, di relativizzarlo, scherzando un po’ con i suoi tic, con le mossette esagerate, con le mani che non si sa dove mettere, con la voce impostata sul diaframma, con la preparazione inutile fatta sull’Enrico sbagliato, mentre Ordulfo (Edoardo Coen) diventa, nella visione di Cecchi, una sorta di severo e solerte custode e sacerdote della Parola dell’Autore, col compito di reprimere ogni deragliamento dal Verbo, ogni improvvida improvvisazione, derisoria caricatura dei tanti che s’oppongono alla forza della novità, ancorati ad un passato inderogabilmente scritto una volta per sempre, eternamente uguale a se stesso, un po’ come Enrico che da vent’anni ripete lo stesso copione.

A Bertoldo anche il compito di riassumere la vicenda con un brano della lettera che Pirandello scrisse a Ruggeri per convincerlo a recitare nel dramma, una delle tante citazioni estranee al testo di cui Cecci infarcisce la pièce: “Circa venti anni addietro alcuni giovani signori e signore dell’aristocrazia pensarono di fare per loro diletto, in tempo di carnevale, una «cavalcata in costume» in una villa patrizia: ciascuno di quei signori s’era scelto un personaggio storico, re o principe, da figurare, con la sua dama accanto, regina o principessa, sul cavallo bardato secondo i costumi dell’epoca. Uno di questi signori s’era scelto il personaggio di Enrico IV; e per rappresentarlo il meglio possibile s’era dato la pena e il tormento d’uno studio intensissimo, minuzioso e preciso, che lo aveva quasi per circa un mese ossessionato. Sciaguratamente, il giorno della cavalcata, mentre sfilava con la sua dama accanto nel magnifico corteo, per un improvviso adombramento del cavallo, cadde, batté la testa e quando si riebbe dalla forte commozione cerebrale restò fissato nel personaggio di Enrico IV. Non ci fu verso di rimuoverlo più da quella fissazione, di fargli lasciare quel costume in cui s’era mascherato: la maschera, con tanta ossessione studiata fino allo scrupolo dei minimi particolari, diventò in lui la persona del grande e tragico Imperatore. Sono passati vent’anni. Ora egli vive – Enrico IV – in una sua villa solitaria: tranquillo pazzo. Ha quasi cinquant’anni. Ma il tempo, per lui (per la sua maschera, che è la sua stessa persona) non è più passato ai suoi occhi e nel suo sentimento: s’è fissato con lui, il tempo. Egli, già vecchio, è sempre il giovine Enrico IV della cavalcata”.

Più “canoniche” le parti dei Signori, di fronte ai quali Enrico appare sempre più come un Montecristo che ha atteso per vent’anni la sua giusta vendetta, Matilde (Angelica Ippolito) come Mercédès, invecchiata al punto da dover camuffare i segni del tempo tingendo i capelli, ha finito per accettare come amante il barone Belcredi (Roberto Trifirò) che come Fernand Mondego ha colpito il protagonista, facendo imbizzarrire il cavallo, per metterlo fuori gioco; il dottore (Gigio Morra) è un medico che non riesce a capire di aver di fronte un finto malato e si vanterà d’averlo guarito, cui s’aggiunge Remo Stella nei panni del marchese Di Nolli e Chiara Mancuso che è Frida, Vincenzo Ferrera (Landolfo) e Dario Caccuri (Arialdo).

Più facilmente si nota, in tal modo, la struttura ottocentesca che sempre sorregge il teatro pirandelliano, la regia ne rivela facilmente la natura pervasiva che di solito è occultata dal raisonnement, la loro recitazione, più allineata al copione, è tuttavia continuamente frammentata, spezzata, interrotta da citazioni, rinvii, schegge di memoria, ricorso alle cadenze dialettali, un concerto, insomma di segmentati riferimenti al presente e al passato che illuminano di luce nuova la vicenda. Su tutti lui, Enrico, che riesce ad esser grande attore senza essere come gli altri, vivendo in pieno la sapienziale coscienza della levità e dell’incompletezza, donandoci l’iridescente gioco delle infinite sfumature pirandelliane in un gioco – faticoso e strambo – che si nutre di continue analisi, della fatica di stare sulla scena: il più grande tradimento alla parola scritta dell’Autore, l’omissione della “forte commozione cerebrale” causa dei primi dodici anni di follia, diventa al tempo stesso il più puro e filiale omaggio al Maestro.

No, neanche per un momento l’ignoto protagonista della pièce diventò Enrico Imperatore perché aveva smarrito la ragione: fin da subito, guardandosi allo specchio, la scelta – perché di questo si trattò – fu per amore, fu per quella cosa che, per pudore, non viene mai pronunciata: vocazione; la farsa carnascialesca e costosa d’Enrico diventa, allora, per il ruvido maestro, gioco della vita – “divenni attore, the player” – definitiva, esclusiva, dispotica, febbrile consacrazione al teatro. Dunque l’interpolazione del testo, la sua continua modifica, la sua evocazione – “Che dice ora, Pirandello?” –, la sua smentita, perfino la sua irrisione blasfema diventa perfetto, elegante, leggero, travolgente atto d’amore per l’Autore e per il Teatro, moltiplicazione rifratta di specchi, di risonanze, in un pirotecnico impazzimento che però è lucida e liberatoria presa di coscienza.

Perché la storia, la dimensione del già scritto e fissato per l’eternità, (il colorato medioevo delle belle e sobrie scene di Sergio Tramonti, degli splendidi costumi di Nanà Cecchi, esaltato dalle penombre giocose del gioco di luci di Camilla Piccioni) viene per forza di cose contrapposta all’epoca moderna, alla vita attuale, la vita “di noi liberi” che non è così perfetta, manca di coerenza, sfugge spesso all’interpretazione e ad una qualunque conoscenza, regno, spesso, della relatività più confusa, opaco specchio della realtà: Enrico contesta, pesantemente, la volgarità, l’insensatezza, la costrizione di tutti noi che viviamo il presente, spesso malapartemente liberi in una prigione, la difesa dell’immobilità della storia si traduce in salvezza e liberazione dall’angosciosa mancanza di senso del quotidiano. La realtà, ciò che accade, ciò che vediamo “come in uno specchio”, la relativizzazione del suo senso rende impossibile la tragedia, il dramma scivola inevitabilmente, vertiginosamente, inarrestabilmente, paurosamente nella farsa, l’illusione della recita storica di Enrico viene continuamente frammentata con la messa in evidenza della teatralità: Enrico entra ed esce dal ruolo come vuole, alternando melodramma – la sua entrata con il prologo in cielo dal Mefistofele di Boito, la chiusura sulle note ribattute di Cavalleria rusticana – con le canzonette – ballando su Noi siam come le lucciole – con la radio – i discorsi di Mussolini e le canzoni fasciste – il turpiloquio insistito, in barba al linguaggio sempre sorvegliato dell’originale.

No, la tragedia nel mondo moderno non è realizzabile, Cecchi è con il Pirandello del Fu Mattia Pascal: “Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? (…) Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta”. La farsa, dunque, non può chiudersi, coerentemente, che in un solo modo: dopo aver accoltellato il barone, che cade, come da copione, al centro della scena, Enrico, da bravo capocomico qual è, gli dice: “Su, alzati, domani devi recitare ancora”. Ora sì, siamo sicuri che Pirandello avrebbe apprezzato.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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enrico-iv-e-lo-strappo-nel-cielo-di-cartaEnrico IV <br>di Luigi Pirandello <br> <br>adattamento e regia Carlo Cecchi <br>con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Trifirò <br>e con Dario Caccuri, Edoardo Coen, Vincenzo Ferrera, Davide Giordano, Chiara Mancuso, Remo Stella <br> <br>scene Sergio Tramonti <br>costumi Nanà Cecchi <br>luci Camilla Piccioni <br>produzione Marche Teatro <br>durata 1 h e 30' <br>in scena dal 26 febbraio al 3 marzo <br>Napoli, Teatro Mercadante, 26 febbraio 2019

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