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Elvira, o del sentimento teatrale

Toni Servillo approda a Napoli al Teatro Bellini con la sua Elvira. In scena fino al 12 febbraio.

Donna Elvira è la moglie tradita e poi abbandonata di Don Giovanni. Molière la fa entrare in scena due volte, nel suo dramma, per due incontri con il marito; la prima volta descrive una situazione più convenzionale, la sposa tradita chiede, dopo lunga ricerca, giustificazioni al fedifrago, non si esce poi di molto dal cliché usuale, per quanto si possa parlare di stereotipi con Molière. Ma è nel secondo incontro che Molière infila l’autentico colpo di genio: scappa dal convento in cui ormai si è rinchiusa, Elvira, verso lo sposo ancora amato, non per maledirlo o rimproverarlo, nemmeno per scongiurarlo di tornare con lei: “una ragione pressante” la spinge, che “non consente indugi”, non è più “la stessa donna Elvira che muoveva rimproveri”. È venuta ad avvertire l’amor traditore d’un inferno possibile che potrebbe – tra non molto, e lei lo sa con certezza – spalancarsi d’un tratto sotto i suoi piedi, per definitivamente inghiottirlo: un’apparizione, quella di Elvira che è pure annunciazione, e annuncio di morte, vero e proprio Todesverkündigung d’una sbigottita walkiria, sì da far piangere perfino Sganarello (“povera donna”) – e ce ne vuole. Questa scena, la sesta del quarto atto del Don Giovanni, come fosse viatico per un diverso modo d’intendere la vita e la scena, abbacinata e mai più raggiunta vetta del genio teatrale, ossessiva prova d’esame su cui misurare l’autenticità della propria vocazione, diventa tormentoso e stupefatto oggetto di sette lezioni, sette saggi sul teatro, sette prove attraverso cui temprare la propria acutezza.

È così, Elvira Jouvet 40 che Brigitte Jacques trasse da da Molière e la commedia classica di Louis Jouvet, è integrale trascrizione delle sette lezioni, appunto, che il grande attore francese tenne al Conservatoire National d’Art Dramatique di Parigi tra il febbraio e il settembre del 1940, a cavallo, dunque dell’occupazione nazista della Francia. Protagonisti, oltre al Maestro Juvet, tre giovani allievi della scuola, tra cui spicca Claudia, una giovane Elvira il cui apprendistato sarà duro e severo, reso tale proprio da quell’esigente Maestro che aveva, evidentemente, intravisto in lei la stoffa della grande attrice. Arriva a Napoli, questo spettacolo, al Teatro Bellini, dopo la gloria significativa del Piccolo Teatro di Milano (come ignorare la memorabile interpretazione che lì ne fece Strehler, complice una giovanissima Giulia Lazzarini) e dopo quella, parimenti significativa, del Théatre Athenée di Parigi, in cui è stato apprezzato il “modo italiano” dell’interpretazione. Arriva a Napoli, dunque, a conclusione e coronamento d’un percorso applaudito e apprezzato: non è un caso, crediamo, che Toni Servillo, che di questo spettacolo è regista e interprete, possa aver visto, in questo ritorno a casa, accolto e aspettato, una (re)immersione nel corpo di Napoli, come direbbe Giuseppe Montesano che ha curato la traduzione della pièce, metafora e riepilogo, in qualche modo, del mondo intero. Accanto a Servillo, una giovane attrice, Petra Valentini che è Claudia ma pure Elvira, e due giovani attori, Francesco Marino, insieme Octave e Don Giovanni, e Davide Cirri, Leòn che interpreta Sganarello.

La scena è povera: è la nudità del teatro inabitato, vuoto come è vuoto l’utero in attesa dell’impianto, l’assenza è solo indugio sospeso, non negazione. Basta una pedana rialzata, illuminata di sbieco a lasciarne nel buio i contorni, qualche sedia – bianca – la prima fila di platea per appoggio agli abiti di scena, un paio di file di poltrone ricoperte da un drappo bianco a segnare una parete virtuale, un limite, tra ciò che si va rappresentando da quella parte e ciò che si va vivendo, da questa, come fosse aperto invece uno squarcio nello spaziotempo. Perché poi, di questo, alla fine, si tratta: non metateatrale gioco degli specchi, accattivante e tuttavia leggermente astratto nella lucidità dell’analisi logica del gesto drammatico, ma, invece, pura maieutica del sentire, contro tutti i condizionamenti – “l’orgoglio” – che ne impediscono il semplice e beato fiorire, in un “lasciarsi andare” che è incondizionata resa alla necessità, non alla logica. Se Elvira questa sera è qui, è perché obbedisce, come corpo morto, a questa esigenza, che non è né comoda né facile, ma che invece è frutto della conquista lenta e del progressivo arrendersi di se stessi, in un “sentimento intelligente” che “non ha niente a che fare con l’intelligenza delle filosofia”.

Pochi ma attenti accorgimenti sono utili alla parte dell’attrice per disegnare le coordinate di una condizione che è di vorace apprendimento, di battaglia contro la propria stessa intelligenza teatrale: il gesto di togliersi le scarpe, per spogliarsi delle sovrastrutture, il raccogliersi dei capelli, per rinunciare all’apparenza, il riscaldamento prima della prova, sottomissione ad una attenta pedagogia attorale. Dall’altra parte, sotto la fissità della luce monotona e ferma, senza esitazioni e gradazioni, lui, il capocomico, il maestro, pratica una pedagogia che è soprattutto parola, ininterrotto canto che incarna, vive, agita dal di dentro le teorie che via via va esplicitando, come la metafora che accosta la recitazione all’acqua corrente, che non sta mai ferma, che sempre deve fluire, rimbalzare, impennarsi, precipitare, in una continua sollecitazione dello spettatore. O come il pianto che deve essere non fuori, negli occhi dell’attore, ma dentro, in quello che dice, così da suscitare lacrime nel pubblico, non sul proprio volto, “sarebbe troppo facile”. Il pubblico assiste, in silenzio carico di magnetica sospensione, alla perfezione tecnica dell’articolato di Servillo, al dipanarsi e al rincorrersi perfetto dei tempi e al sentimento della vocazione che traspare dal gesto. Alla fine l’applauso è quasi il compiersi di un rito liberatorio, il prorompere catartico di un’emozione che stringe la gola.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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elvira-o-del-sentimento-teatraleELVIRA <br>(Elvire Jouvet 40) <br>di Brigitte Jacques <br>da Molière e la commedia classica di Louis Jouvet © Éditions gallimard <br>traduzione Giuseppe Montesano <br> <br>con Toni Servillo <br>e con Petra Valentini, Francesco Marino, Davide Cirri <br> <br>costumi Ortensia De Francesco <br>luci Pasquale Mari <br>suono Daghi Rondanini <br>aiuto regia Costanza Boccardi <br> <br>regia Toni Servillo <br> <br>coproduzione Teatri Uniti, Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa <br>durata: 75 minuti <br>Napoli, Teatro Bellini, 24 gennaio 2017 <br>In scena dal 24 gennaio al 12 febbraio 2017

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