[rating=3] Non dobbiamo aspettarci che ascoltare un concerto jazz di un gruppo norvegese sia la stessa cosa che ascoltare il jazz americano o suonato da francesi o da italiani. La musica è un linguaggio e, come tale, è il risultato dell’intera storia di un popolo. Il jazz, più delle altre musiche, è aperto ad accogliere ogni aspetto dell’identità dei musicisti e delle loro idee innovative, tanto che, sotto questa etichetta trovano posto espressioni musicali molto diverse le une dalle altre.
E’ il caso del concerto del 22 maggio scorso al teatro “Asioli” di Correggio, che, per la rassegna Crossroads, ha visto esibirsi la band del contrabbassista norvegese Eivind Opsvik, giunta al quarto capitolo del progetto denominato “Overseas”.
Il quintetto di “Overseas IV” è formato, in realtà, da tutti musicisti americani, con la sola esclusione del leader, peraltro residente anch’egli a New York già dal 1998, ma il sound che lo contraddistingue ha richiami espliciti alla tradizione scandinava.
Il brano di apertura ci porta fin da subito in un’atmosfera molto diversa da quella a cui siamo abituati e lo fa grazie alla ricchezza armonica data da due strumenti ad arco: uno è il contrabbasso di Opsvik, l’altro è la chitarra di Brandon Seabrook, suonata per l’occasione con l’archetto, una pratica originale ma non nuova ai chitarristi più audaci. Voler leggere questo concerto secondo i parametri di una “normale” esibizione jazz, nel senso più americano del termine, è uno sforzo vano e sostanzialmente privo di senso. Lo ascoltiamo già dal primo assolo del sax, fluttuante su un discreto accompagnamento del piano, ma completamente libero di muoversi armonicamente e ritmicamente.
Il secondo brano, ritmicamente ossessivo, è una vetrina dell’effettistica della chitarra, su una sonorità complessiva con chiari riferimenti all’heavy metal. Anche il pianoforte a coda è trasformato dall’effettistica, così come ogni altro suono. Il sax, che di fatto scandisce soltanto il tempo, è relegato al registro grave e perde la sua identità. Ora è chiaro che stiamo assistendo ad una ricerca timbrica da parte di tutti gli strumenti, che, ognuno con i propri mezzi, esplorano possibilità sonore inedite.
Questa ricerca viene proseguita dal contrabbasso, nel suo assolo all’inizio del terzo brano. Le note flautate si alternano a quelle “grattate” dall’arco; i glissati prendono forma in note, che prima si perdono e poi si ritrovano, in una fluttuazione di altezza che diventa sistematica. Ora, ad essere messa in discussione non è solo l’identità timbrica degli strumenti, ma anche l’intero sistema di intonazione, che diventa variabile. Ad un certo punto la ricerca diventa individuale, l’ensemble si scorpora per lasciare ad ogni strumentista la propria libertà, ma condotta con un’unità di intenti che testimonia la grande coesione di questa formazione. Si tenta un ritorno agli albori della musica, ai suoni che, da informi, trovano una loro organizzazione.
Tony Malabi, al sax tenore, è un musicista eclettico, molto attento a non cadere nella tentazione di suonare qualche cliché del jazz e, al contrario, concentrato su un lavoro timbrico che lo porta dai suoni più acidi dei sovracuti alla morbidezza delle sue costruzioni melodiche. Su un riff del sax e del contrabbasso degno di un pezzo rock, la chitarra articola non note, ma solo distorsioni, ottenute con l’ausilio di una radio applicata sui pick-up, che riproduce in modo casuale altre musiche. Ce n’è abbastanza per pensare alle tecniche aleatorie e alle esplorazioni elettroniche di John Cage. Il chitarrista Brandon Seabrook è molto abile nel lanciarsi in queste sperimentazioni e si conferma come il vero protagonista della serata.
La musica di “Overseas” sembra attingere alle radici dei suoni e ai loro legami con la natura. Nel quarto brano proposto, “Men on Horses”, dal ribollire magmatico di suoni cupi emerge in assolo il pianoforte di Jacob Sacks, capace di dare un senso alle estreme dissonanze, mentre sullo sfondo il ritmo regolare della batteria di Kenny Wollesen sembra un respiro atavico, costante nel dare la vita all’intera composizione.
Il progetto di Eivind Opsvik è portato avanti con grande coerenza, si tratta di un’opera corale che ha un senso ben preciso e in cui ogni apparente eccentricità ha l’obiettivo di scandagliare una qualche possibilità sonora. I musicisti, tutti molto richiesti sulla scena newyorchese in ambiti di vario genere, sono determinati nel mettere a servizio le loro grandi potenzialità individuali per il risultato finale. Proprio per questo avvertiamo, a tratti, la mancanza di qualche spazio in più per ognuno di questi bravissimi artisti. Il materiale musicale messo in campo dal concerto di Correggio è moltissimo e non tutto riesce ad essere esplorato a dovere, ma, complessivamente, il progetto Overseas è una delle più interessanti esperienze della musica che oggi chiamiamo jazz.