Musica ribelle – La forza dell’amore è un musical complesso, da valutare con molti sguardi. Recitazione, drammaturgia, arrangiamento dei brani, scenotecnica: da qualsiasi prospettiva lo si osservi, punti fermi e punti deboli si intersecano per divenire un flusso che corre in direzione dello spettatore. Il cui target ideale può essere tra i 14 e i 28 anni, quello più fertile e aperto a recepire una storia che canta di rivoluzione, incontro tra generazioni, apatia, nichilismo. Tante sono infatti le tematiche dell’opera, su soggetto di Pietro Contorno, talvolta caotiche e rischiose di scivolare in alcuni clichées (l’artista squattrinato contro l’industriale arricchito); talaltre insidiose e fondamentali, su tutte il disagio adolescenziale, l’abuso di sostanze stupefacenti, l’autolesionismo, il rapporto morboso con il web.
Interessante il parallelo temporale, la similitudine incrinata tra le vicende di un collettivo politico, musicale e ideologico degli anni Settanta – che in uno scantinato di Milano ha la sua base operativa – e una gang di ragazzi e ragazze che in quello stesso luogo, quarant’anni dopo, si rifugia per scappare dalla famiglia, dalla scuola, da una società che li vampirizza e sfrutta come consumatori.
Il proprietario è un ex hippy, ex rocker narcisista ed egocentrico, pacifista ed idealista, tale Nebbia, di cui ancora esistono tracce nei diari scovati e divorati dalla leader del gruppo, una writer sensibile e allo sbando – che sfrutta l’anoressia per fare del suo corpo un’opera d’arte. Così, con sapienti cambi luce e una scenografia che muta impercettibilmente, la vicenda si intrica e si districa e si è proiettati, a tratti, quando nei sanguigni ed eversivi anni della contestazione studentesca, quando nel nuovo millennio, cupo, introverso, inondato di droga sintetica e paralisi della volontà di potere.
Questo dimostra come il musical possa essere non solo un genere “d’evasione”, ma anche veicolo di pensieri pluridimensionali – non semplicemente una forma di spettacolo fine a se stessa. I brani interpretati dal cast di cantanti e attori/attrici dall’intensa presenza scenica, uno su tutti il carismatico Federico Marignetti, calato nel ruolo fin nel midollo, capace di recitare senza manierismi e intonato alla perfezione, sono del cantatutore Eugenio Finardi. La forza dell’amore, Extraterrestre, Patrizia, La radio sono solo alcuni dei pezzi che fanno da tappeto sonoro ai tumulti esistenziali di Nebbia e il suo clan, accompagnando gli atti che dalla ricerca della libertà sfociano nell’eroina, per bypassare la monogamia, l’amore, il rispetto.
La violenza subentra alla protesta, l’egoismo si sposa con la debolezza e l’arroganza, i compagni tradiscono, le donne che non si ha il coraggio di amare, fuggono.
Gli arrangiamenti, curati da Emiliano Cecere e Valerio Carboni, cambiano pelle, trasformandosi da rock, reggae e progressive in techno, house, hip hop e drum&bass (ma pensiamo che un intermezzo rap, cantato, non avrebbe guastato, per sottolineare il gap tra le due epoche.)
Volumi eccessivamente alti a parte, che spesso hanno coperto le voci, l’ossatura musicale ha contribuito a rendere ancora più gradevole e trascinante l’opera. E la generazione cibernetica si è dimostrata, sul finale, meno dogmatica, meno imbevuta di concetti rispetto ai “figli dei fiori” – forse più capace di determinare una rottura con il presente.
La musica contribuirà, insieme al teatro, alla nascita dell’uomo nuovo, come si augurava Dostoevskij?