Home Lirica Una Walküre per il tempo che siamo chiamati a vivere

Una Walküre per il tempo che siamo chiamati a vivere

Al Teatro Petruzzelli di Bari in scena "Die Walküre" di Richard Wagner, direzione di Stefan Anton Reck, regia di Walter Pagliaro, scene e costumi di Luigi Perego

Se qualcuno tentasse oggi – pur con tutte le circospette cautele che un’operazione del genere sempre porta inevitabilmente con sé, anche sul piano della grossolanità e dell’inadeguatezza – una sorta di sondaggio che tenesse conto del gradimento del pubblico, come si fa con le serie televisive, da cui scaturisse poi una qualche classifica che tenesse conto del favore diversamente accordato a ciascuna delle tre (più una) giornate della sagra scenica del Ring wagneriano, non potrebbe che premiare con l’eccellenza Die Walküre. E non spaventi o sorprenda la metodologia adottata, a prima vista più adatta alle analisi di marketing dei media della nostra contemporaneità, e che mal sembrerebbe adattarsi ad un vetusto oggetto culturale come il complesso mondo di Wotan e Brünnhilde: basta, in fondo, correggere di qualche grado il nostro punto di vista, quanto occorre per compensare gli anni trascorsi, per scoprire – inusitatamente, sorprendentemente, distintamente – come il prodotto culturale di cui parliamo, quel Ring di cui tanto si è scritto, che ha generato fiumi di parole e di analisi, intere biblioteche di libri, libelli e ponderosi tomi, il cui mondo complesso e stratificato è stato oggetto di profondissime quanto spesso fallaci analisi psicologiche e sociali, così rigidamente articolato in classi o in “luoghi dell’anima”, con gli dei che abitano il mondo supero, i giganti quello di mezzo, i nani nibelunghi quello infero – e gli uomini no, non si sa mai bene dove collocarli, essi vengono dopo, dopo l’olocausto, o, almeno, da quello acquistano libertà di scelta e d’arbitrio – risulti, alla fin fine, molto più simile ad un prodotto fantasy dell’oggi di quanto avremmo mai immaginato nelle nostre più sfrenate o colpevoli fantasie.

Torneremo su questo concetto, che ci servirà proprio per meglio comprendere luci ed ombre di questo allestimento barese, per ora ci basti sapere che, certo, Die Walküre è ciò che è per un suo familiare quanto stupito risuonarci dentro, e le giustificazioni del suo perdurante successo sono da ricercarsi, probabilmente, non solo in ragione della più ampia cantabilità dei suoi brani, che spesso sfociano in quanto più vicino alla forma chiusa possa aver concepito il Wagner maturo, ma anche e, crediamo, soprattutto, per la non scontata umanità, sentimento di calda simpatia ed empatia, che i suoi personaggi e le vicende che li vedono protagonisti, sofferenti e tormentati, suscitano tra gli spettatori. E questa riflessione ci dà anche modo di comprendere come, nell’opera d’arte, soprattutto quando la densità e la complessità raggiungono così alti livelli, ciascun tempo e ciascuna tendenza culturale possa facilmente riverberarsi e riconoscersi, trovare un approdo, una patria da venerare e comprendere in una parte, in una scheggia, in un compiuto e felice brandello dell’Universo culturale che quell’opera abita e vivifica. Se, infatti, la tragedia della Walküre così ben s’adatta ai nostri tempi liquidi evanescenti e seduttivi, in cui le libere scelte individuali s’esaltano e provocano esse stesse altre scelte, magari rovinose, sempre più stringendo la vite senza fine che, per l’appunto, costituisce l’essenza stessa della tragedia, rimaniamo tuttavia avvertiti che non sempre è stato così.

Non sembri, infatti, così scontato dire che Die Walküre sia una tragedia, non lo è solo per il fatto che nel corso dell’opera ci sono svariati contrasti tra i personaggi, che alla fine uno dei protagonisti muore, che ci sono, insomma, abbastanza lacrime e sangue, abbastanza dolore e sconfitte, abbastanza rabbia e paura: Die Walküre è tragedia nel senso che aderisce, in modo pieno e consapevole, all’essenza del tragico che Schiller ed Hegel andavano definendo, proprio negli anni tempestosi e luminosi che videro la genesi del Ring, non tanto come narrazione dell’eroe nobile e probo che soccombe di fronte ad un avverso destino o ad antagonisti moralmente riprovevoli, che è, fondamento, invece, del dramma borghese (e del melodramma, che di quello costituisce l’epos), ma, invece, come descrizione e puntale risonanza di un protagonista diviso tra due o più istanze morali contrapposte, eticamente parimenti valide, in cui ogni tentativo di uscire dalla crisi ne provoca inevitabilmente una più grave e ancor più potenzialmente letale. Se volete, questo inestricabile dilemma morale, nella estrema radicalizzazione della relativizzazione, si conserva intatto anche nell’oggi della nostra contemporanea tragedia, attraversa con noi le nostre stesse strade, ci pone di fronte, continuamente, al viluppo delle nostre inestricabili scelte, che pur dobbiamo quotidianamente compiere, tra progresso e salute, tra slancio del cuore e calcolo di sopravvivenza, tra ponti di solidarietà e muri di inquietudine, tra istanze etiche diverse e incommensurabilmente inconciliabili.

Così, da quando è stato concepito e scritto, altre parti del Ring hanno, certo, riscosso in diversi tempi maggior favore, come per esempio la favola del Siegfried nella stagione del Übermensch, anche nelle sue pericolose declinazioni storiche, o, ancora, il melò del Götterdämmerung nell’epoca morbida e vaga del decadentismo amante della morte e della bellezza, anticamera dell’inferno della Grande Guerra. Messa in scena con gran coraggio a Bari nel 2009, quando ancora la ricostruzione del Petruzzelli non era ultimata – lo sarà l’anno dopo, in cui andrà in scena, nel riedificato teatro, Siegfried (Rheingold era invece stato eseguito in forma di concerto l’anno prima) e poi, in seguito Götterdämmerung – fu un trionfo al Padiglione 7 della Fiera del Levante di Bari, inaugurazione col botto del Festival del Maggio Barese di quell’anno. Una sfida raccolta e vinta, quella di mettere in scena l’intero Ring des Nibelungen – impresa questa, per la cronaca, ancora di là da venire in molti teatri italiani – che fu dovuta al coraggio del direttore d’orchestra, Stefan Anton Reck, non solo secondo chi scrive uno dei migliori direttori wagneriani del momento, che ebbe l’idea e che contagiò, rendendolo suo miglior alleato, il sovrintendente dell’epoca Giandomenico Vaccari, per poi trovare in Walter Pagliaro un regista che, grazie anche alle efficacissime pur se essenziali scene di Luigi Perego seppe cogliere la giusta alchimia per rendere sulla scena la complessa macchina wagneriana, con le sue minutissime didascalie.

Quella stessa edizione di Walküre s’incarna, dieci anni dopo, oggi, in un nuovo allestimento che da quello prende le mosse, per tornare a stupirci – stesso direttore, stesso regista, stesso scenografo, anche alcuni degli interpreti sono gli stessi – con l’inesausta magia del grande illusionista Richard Wagner. Se allora, tuttavia, scene e regia dovettero far i conti, probabilmente, con un budget risicato, che consentiva scelte limitate, per quel che posso ricordare, e che si traduceva in un grande uso di tessuti colorati, alla fine risultando d’una particolare e inusitata efficacia, questa volta ci si è avvalsi di una scena che, pur nella sua essenzialità geometrica – enormi tralicci segnano i confini del boccascena, a destra e a sinistra – è ben lungi dal senso di costrizione che a prima vista l’astrazione potrebbe suscitare, spesso gli attori vengono invece portati dalla regia di Walter Pagliaro a rompere la quarta parete, perché il palcoscenico, forse angusto per la grandeur wagneriana, smania di prolungarsi in due passerelle laterali che prendono, da ambo i lati, lo spazio di due palchi, circondando il golfo mistico, anch’esso dilatato, ad accogliere la maggiorata orchestra. In scena, disegnati da Luigi Perego, giganteschi praticabili dotati di scale e passerelle e ringhiere portano in dote movimento e cambiamento, con gli attori che di volta in volta sono costretti, ci è sembrato anche con qualche fatica e circospezione, a scendere e salire i ripidi pioli. La dimensione del sogno e dell’amore, ma anche, probabilmente, del sonno della giustizia, violata dal comportamento di Wotan, è attestata dalla presenza, in ogni scena, accanto o sopra i castelli di tralicci che tentano impossibili sortite al cielo, di letti immacolati, troppo spesso e insistentemente per essere un caso.

Così, la prima scena, all’ombra di un frassino scheletrico ed essenziale, mostra in primo piano il giaciglio offerto a Sigmund per la sua veglia, entro il perimetro delle diroccate mura della casa di Hunding, che rinviano ad una situazione wo Unheil im Hause wohnt, dove il male è di casa. Faranno in fretta, quelle mura rovinose ad alzarsi e sparire, al Canto della primavera che si apre, improvviso e azzurro, sotto l’enorme Wonnemond, voluttuosa luna dell’aprile che avanza. Certo, noi vegliardi avremmo forse preferito che crollassero, quelle mura, cedere come la Wintersturme, la bufera invernale, piuttosto che, con rapido movimento, ascendere verso l’alto e perdersi, ma questo ci dà forse la cifra di una regia più che moderna, direi contemporanea, nel suo rifarsi istintivo e a tratti ironico, alla canoni estetici d’una visionarietà che ormai appartiene al nostro quotidiano, così è anche per le proiezioni, di cui si fa un uso intensivo, che ci rimandano a inaccessibili vette alpine immerse in nebbie fitte e tempestose. Anche nella seconda scena ci sono letti, quello solitario dove Wotan riposa dalle fatiche della guerra, der Gattin Blick zu entgehn, per fuggire allo sguardo della consorte, o quello, altissimo sull’intrico dei tubi metallici, che funge da steinsitze, sedile di pietra, dove Sieglinde troverà requie momentanea fuggendo i suoi fantasmi e le sue angosce; infine, il letto, rosso e barocco, dove Brünnhilde dormirà – come in una favola antica o in un mito primordiale – fino a che den hehrsten Helden der Welt, il più nobile eroe del mondo, non deciderà, conoscendo finalmente la paura, di svegliarla.

Ma quella è un’altra storia, in questa il sonno della ragione, in tutta evidenza, genera mostri, nei morti impiccati della rupe dove sostano le Walkirie, nelle luci rosse che a stento forano le nebbie della follia, nelle angosce oscure che si incarnano nelle forme nere dei mimi (i movimenti coreografici, sobri, non invadenti, pertinenti, sono a cura di Daniela Schiavone) che sfiorano la terra, ossessionando i pensieri e il riposo di chi vive, paure e tormenti, incubi e flagelli a malapena mitigati da una vena ironica che attraversa tutta la messa in scena, che si coaugula in alcuni costumi, come quello da perfetta moglie metà novecento di Fricka, o nei grossi fiori, a metà fra girasoli e margherite che l’irruzione della primavera sorprende aprirsi alla luce lunare o, ancora, nei destrieri delle Walkirie della famosa scena della cavalcata, che ci riportano, con sottolineato umorismo, alle ingenue rappresentazioni d’un secolo fa. E certo, non stupisce questa esuberanza visionaria, trattandosi di mettere in scena Wagner, se mai a colpire è la rinnovata estetica dei segni, come nel gran finale del Leb’ wohl, tra incontaminati spazi siderali e anelli di fuoco tracciati nel cielo, riscrivendo così le fitte e pignole e pedanti didascalie wagneriane in allucinata vision art, perfettamente leggibile, perché in linea con i canoni della contemporaneità, anche dai profani del mondo lirico e wagneriano in particolare, senza tuttavia smentirne o sminuirne la natura e la portata. Il che non è poco.

Inutile dire che Stefan Anton Reck contribuisce da par suo alla riuscita dello spettacolo, alla guida della sempre professionale Orchestra del Teatro Petruzzelli: se da un lato si ascolta con crescente stupore la sua appassionata direzione che lascia perfettamente trasparire in controluce un mondo d’acquisite certezze che gli derivano, evidentemente, da una carriera ormai lunga e meritoria sulle tracce del “suo” Wagner, dall’altro avverti, e con piacere, e con commossa urgenza, l’inesausta voglia – e l’inenarrabile piacere – di rimettersi ogni volta in gioco, di riscoprire, in ciascuna nuova occasione, l’opportunità di una risplendente (ri)scoperta, la consolazione di un suono inaudito, lo scintillio d’un passaggio dalle inesplorate risorse. È un Wagner che fa piacere ritrovare, nella direzione di Reck, quello dei sottesi pianissimi, dei giochi perfetti articolati in sottili risvolti musicali che alludono e motivano moti dell’animo, sguardi venati di suggestione evocativa nella fitta e corposa orchestrazione wagneriana. Nel ruolo eponimo, una stupenda cantante, una conferma sicura di quanto già sapevo, avendo ascoltato Maida Hundeling già, alcuni anni fa, qui a Bari, interprete di una Senta che molto mi aveva impressionato in un Fliegende Holländer che ricordo con molto piacere. Perché se la voce, decisamente chiara e limpida nel suo splendore, se l’intonazione sempre perfetta, se il fraseggio di grande spessore drammatico, se tutto questo fa parte, come dire, della dotazione d’obbligo d’una buona interprete wagneriana – almeno così dovrebbe – è soprattutto sul piano visivo e drammatico, nelle ottime doti drammaturgiche, in una interpretazione senza sbavature e senza cadute, che si costruisce una Brünnhilde in grado di essere letta, compresa, capita anche ai nostri giorni, eroina del quotidiano traffico della contemporaneità, fuori dall’enfasi estatica e struggente d’un mondo perduto.

Così è anche per Thomas Gazheli, che già fu Wotan nel Siegfried di nove anni fa qui al Petruzzelli e che ieri sera ha di nuovo (re)incarnato in voce, carne e sangue, con piglio di protagonista, quel personaggio, arrovellato e tormentato e inquieto fino all’esaltato struggimento dell’ira, servito con cura e dovizia di particolari, dal tono ieratico e distante del dio iroso e assetato di potenza a quello affettuoso e colloquiale, paterno del padre doloroso e affaticato. Lo serve una voce che, pur stando in scena per tre quarti della lunga performace, non sembra risparmiarsi né perdere smalto man mano che ci si addentra nel dramma, dall’epos del Nun zäume dein Ross all’arcana evocazione del Loge hör. La coppia dei gemelli Valsidi, Sigmund e Sieglinde è ben sostenuta da Christian Elsner e Michaela Kaune: il primo, che già sostenne la stessa parte nella Walküre del 2009, è un cantante wagneriano di lungo corso, in cui, certo, la tecnica perfetta riesce a sopperire a qualche crepa nello smalto della voce, che pure conserva intatto, all’occorrenza, lo squillo e il tratto eroico, riuscendo alla fine a risultare corretto e convincente; e pure persuade fino in fondo la seconda, credibile come cantante dalla voce che sa sussurrare e abbandonarsi a toni di appassionato lirismo o esaltarsi nella scoperta dell’amor suo disperato e interdetto fino alle estreme conseguenze, e come attrice, dal gesto sempre misurato e appropriato. Bene anche le prestazioni della Fricka di Michelle Breedt, petulante e rompiscatole come una vecchia moglie ma orgogliosa e dignitosa come una dea e il violento Hunding di Albert Dohmen, che sa animare il suo personaggio d’intensa rabbia trattenuta. Anche le otto Valkirie danno ottima prova sia della voce sia della presenza scenica, sapendosi emancipare dal tono enfatico e polveroso che spesso le figlie di Wotan assumono in scena, risaltando invece come perfette figlie del nostro tempo. Conferma, anche questa, di come si possa, senza alcunché stravolgere, servire e “tradurre” l’opera lirica, e, allo stesso modo, il tempo che siamo chiamati a vivere.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
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una-walkure-per-il-tempo-che-siamo-chiamati-a-vivereDie Walküre (La Valchiria) <br>di Richard Wagner <br> <br>Direttore: Stefan Anton Reck <br>Regia: Walter Pagliaro <br>Scene e Costumi: Luigi Perego <br>Maestro del Coro: Fabrizio Cassi <br> <br>Brünnhilde, Maida Hundeling <br>Siegmund, Christian Elsner <br>Hunding, Albert Dohmen <br>Wotan, Thomas Gazheli <br>Sieglinde, Michaela Kaune <br>Fricka, Michelle Breedt <br>Gerhilde, Betsy Horne <br>Helmvige, Talia Or <br>Ortlinde, Evgenia Vukkert <br>Waltraute, Alexandra Yangel <br>Rossweisse, Alexandra Ionis <br>Seigrune, Julia Faylenbogen <br>Grimgerde, Niina Keitel <br>Schwertleite, Laura Nykänen <br> <br>Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli <br>Nuovo allestimento scenico Fondazione Teatro Petruzzelli, dall’idea scenica originale del 2009 <br>In scena dal 10 al 16 aprile 2019 <br>Lingua, tedesco con sovratitoli italiano <br>Durata, 4 ore e 30 circa compresi 2 intervalli <br>Bari, Teatro Petruzzelli, 10 aprile 2019

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