[rating=3] È d’impianto popolare e tradizionale, sia pure immersa in uno stilizzato contenitore dagli avvertiti riferimenti all’arte orientale, questa Madama Butterfly qui a Bari al Petruzzelli, in scena dall’11 al 17 marzo; non che l’osservanza della tradizione sia necessariamente un male in sé: pur amando il nuovo e la sperimentazione, credo anzi che – foss’anche solo a scopo meramente didattico e di necessaria chiarezza epistemologica – ognun debba potersi (e doversi) goder l’opera rappresentata, come i presunti puristi dicono, “com’è scritta nel libretto” (con tutto il contraddittorio nonsense e la confusione culturale che tale espressione sottende) almeno una (magari la prima) volta nella vita, per poi poter liberamente tuffarsi nelle più audaci regie che dissezionano e scompongono e destrutturano l’opera facendone venir fuori recondite armonie perfin all’autore magari ignote. Dunque, niente grilli per la testa: la casa a soffietto che obbedisce a bacchetta, nido della mosca prigioniera, disegnata da Tiziano Santi, occupa tutto il palcoscenico, coi grandi pannelli di juta che scorrono lasciando vedere, là in fondo, una riva, il mare che si confonde col cielo, e non sapresti dire dove finisce l’uno e comincia l’altro, con un pontile suggestivamente proteso verso l’infinito. Del resto, la fragile casa di Butterfly è ciò che – salda come roccia – mai non cambia, nella vicenda, sorta di bolla al di fuori e al di là del tempo e dello spazio. Anche i costumi (di Tommaso Lagattolla) sono quelli tradizionali, dell’Oriente (molto ricchi questi) e dell’Occidente al tempo della prima rappresentazione, cioè all’alba del secolo breve: e ti sembra d’intravvedere – effetto non saprei dire fino a che punto voluto – in trasparenza, nel Pinkerton del primo atto, così in maniche di camicia, gilè, folti baffi e stivaloni neri, proprio Lui, l’Autore, il Maestro stesso, come lo si vede in tante sbiadite foto d’epoca virate seppia, a caccia nella sua Torre del Lago (manca solo la giacca di fustagno e la doppietta). Metempsicosi che risolverebbe così, d’emblée e con illuminante trompe-l’œil, l’eterna questione della negatività egoista e vile del personaggio, premiato tuttavia d’una (per tanti) immeritata e straniante sincerità dei toni nell’accorata struggente scena della prima notte d’amore: ironica identificazione dongiovannea tra creatore e creatura che meriterebbe, se così fosse, molt’attenzione e accorta meditazione.

Fin qui la tradizione. Ma, certo, Butterfly è opera senz’altro di gran richiamo popolare, lo è sempre stata, fin da subito dopo il disastroso esordio, anche (soprattutto?) fra i non melomani: popolarità che sfiora la popolanità nell’accento sentimentale e commovente che, sicuro, è il Puccini della prima sua maturità, e che anzi chiude quel fecondissimo fortunato periodo delle Manon, delle Mimì e delle Tosche, ma che qui si scopre più pucciniano di Puccini, ed è strano destino, per una partitura invece rigorosissima e misuratissima, ad ascoltarla, nell’uso sapientissimo dei leitmotive che si compongono e scompongono con wagneriano artifizio e nell’abilissimo riciclo (documentatissimo Puccini come sempre) di temi popolari giapponesi e nordamericani insieme ad altri che, invece, riconosci pucciniani lontano un miglio. E il Maestro pone questa scrittura densa rigorosa ed elegantissima interamente a servizio dell’ordito teatrale, della suggestione emotiva che questo lavorar di bulino può nella compiutezza suscitar nell’utilizzatore finale, lo spettatore, cioè, che, indifeso, siede in sala e si commuove. Non ha bisogno d’altro, questo melodramma, per viver la vita sua autonoma, che della sua musica, dei suoi versi, della sua drammaturgia: regia (qui affidata a Fabio Ceresa) e direzione musicale (di Giuseppe Finzi) non hanno (non dovrebbero aver) altro compito, se non d’assecondare il Maestro nei suoi intenti, lasciandolo fare come lui sa fare. O, in alternativa, se regista e direttore ritenessero d’aver un’idea interpretativa, ad essi l’onere della proposta lasciando a pubblico e critica l’onore di giudicarla. E così i giovani direttori egregiamente riescono a quadrare il cerchio di rimaner fedeli alla scrittura senza tuttavia esagerar nella pedanteria, portando una ventata di giovane vivacità in un melodramma che ha pur sempre cent’anni e passa. Del resto, non è forse Madama Butterfly l’opera che, meglio e più di tante altre coeve, riesce a cogliere in pieno quella deriva dell’impressionismo visivo e musicale che da noi si chiama Liberty, ma che altrove prende nomi ch’evocano la gioventù e il continuo rinnovarsi, come Jugendstil e Art Nouveau? Solo, se proprio un appunto occorre fare – da ipercritico antipatico – sarebbe preferibil non forzar Puccini sulla sua strada, cercando ancor più l’effetto e l’emozione, ché già ci son entrambi, e a sufficienza, nella musica, nel testo egregio – per l’ultima volta – d’Illica e Giacosa, nell’agito drammaturgico che già l’autore più volte ha dovuto rabberciare. Magari, certe sottolineature degli ottoni, un po’ retoriche e roboanti, certi stentorei rullar di timpani e grancasse, come pure certi accorgimenti scenici – lento cader di neve o effetti di lampi sferzanti di luce – ad accentuare il dramma o il patetismo, forse è preferibile lasciarle fuori, riservarle ad altre partiture abbisognevoli, forse, di tali aiutini che suonan qui un po’ soverchi e ridondanti.
La buona conduzione registica e musicale si rivela anche nella capacità di dirigere gli attori: il cast, anch’esso per larga parte giovane e meritevole, sa infatti stare sulla scena e muoversi in modo appropriato, cosa che non sempre è scontata, in verità, per il teatro d’opera; anche la loro espressione musicale, appassionata e calda, è comunque in generale misurata e consonante e l’orchestra non si sovrappone mai al canto. Il ruolo del titolo è interpretato da Yasko Sato, che si inserisce nel solco delle grandi interpreti nipponiche di Butterfly – a partire da Tamaki Miura, che per prima ne indossò i panni nel 1923 – che hanno il vantaggio, rispetto alle colleghe occidentali, di non dover mimare il gesto accorto e misurato, avvezzo ad una tenerezza sfiorante e pur profonda, facendo già parte, questo, del loro imprinting; se a questa dote innata, s’aggiunge ciò che invece è frutto del lavoro e dell’applicazione, che è perfetta dizione, voce morbida mai stridente negli acuti, appropriatezza drammatica del gesto, mai ridondante ed eccessivo, è facile prevedere per questa interprete un futuro che le apporterà più d’una soddisfazione. Molti applausi, per lei, alla conclusione, e anche alla fine dell’unica vera aria dell’opera, la celebrata Un bel dì vedremo resa con gran raffinatezza e struggente malinconia nella voce e nel gesto. La voce di Antonio Corianò ha l’adeguato volume che ti aspetti dal tenore che interpreti Pinkerton, e il cantante sa trovare teneri accenti nel duetto della sera, spavaldi toni mondanamente colloquiali con il console, sprezzantemente definitivi con il parentame e le bonzerie che l’ingombrano. Più difficile, decisamente, interpretare lo sfuggente ma più vero Pinkerton del finale, degli scontati rimorsi fuori tempo massimo dell’Addio fiorito asil, ottenendo comunque più della sufficienza. Sharpless è personaggio centrale, in Butterfly, che possiede una sua sofferta sfaccettatura, tra accettazione della diversità e impotenza d’azione, limitandosi a dibattere con la sua coscienza le grandi questioni etiche che la vicenda pone: a questa complessità risponde Mario Cassi restituendoci un personaggio che, se sempre adeguato sotto il profilo interpretativo e drammatico, a volte non lo è pienamente sul piano musicale, immaginando noi il console americano con una voce di maggior maturità e autorevole profondità: se la voce, infatti, è di grand’effetto sui toni acuti, riesce invece difficilmente percepibile su quelli gravi e nelle scene d’insieme. Annunziata Vestri interpreta un’arcana Suzuki pensosa e sacerdotale nella sua regale imperturbabilità, vera ancora di salvezza per Butterfly: ha una voce decisamente interessante, dal bel timbro bruno; Goro è interpretato da un insinuante e allusivo Francesco Castoro. Tra i ruoli minori si segnala il ricco Yamadori, un vero cameo per ricchezza di costumi, ironia interpretativa e registica, gioco dell’interprete (Marco Bussi) con un personaggio reso con grande aderenza e gioia teatrale.