Un filo rosso. Anzi, un vero e proprio groviglio di fili rossi che, come una sorta di mostruosa ragnatela invischia il protagonista, ne inceppa i movimenti, impedisce ogni slancio facendo fallire sul nascere ogni eccessiva velleità. Si presenta così, prima che tutto cominci, il Giulio Cesare in Egitto messo in scena da Damiano Michieletto per il Théâtre des Champs-Élysées nel 2022 e successivamente rappresentato al Teatro dell’Opera di Roma nel 2023: arriva in questi giorni al Teatro Petruzzelli di Bari, opera del primo Settecento tra le più rappresentate nel nostro Secolo contemporaneo che, probabilmente, con quello Barocco ha ben più di una affinità.
Si era appena trasferito nella bella casa londinese in stile georgiano in Brooke Street, Friedrich Händel, quando, fra estate e autunno del 1723, compose quest’opera, primo frutto d’un periodo che risulterà alla fine eccezionalmente fecondo, nella Capitale inglese, per il compositore sassone: quella casa è oggi sede dell’Händel Hendrix House, dedicato ai due musicisti che l’abitarono, seppure a distanza di due secoli e su due diversi piani, singolare coincidenza che può farci riflettere sull’eternità della più astratta e temporale delle arti.
Opera “italiana” in tutti i sensi possibili – Händel in quegli anni era compositore della Royal Academy of Music di Londra, istituzione nata con lo specifico proposito di diffondere il modello dell’opera italiana – il dramma per musica su libretto di Nicola Francesco Haym, a sua volta basato su un precedente lavoro di Giacomo Francesco Bussani, fu rappresentato, con enorme successo, il 20 febbraio 1724 al King’s Theatre di Londra: l’ensemble orchestrale era particolarmente ricca per l’epoca, archi, oboi, fagotti, flauti dolci, trombe, corni, timpani, continuo davano la possibilità al musicista di sperimentare e ricercare colori timbrici molto vari, tanto che ogni strumento caratterizza un personaggio o una situazione, il corno per Cesare, il flauto per Cleopatra, l’oboe per le arie di lamento.
Ma certo per i contemporanei il motivo di maggior interesse erano gli interpreti, la qualità dei cantanti rappresentava anzi, in quel momento storico, il movente primo del dramma in musica che veniva costruito attentamente attorno al talento virtuosistico dei protagonisti sulla scena, adattando su misura il testo, la musica, perfino la scena: nel caso particolare del Giulio Cesare Händel riuscì a mettere insieme un cast di straordinario valore che ruotava intorno al Senesino, al secolo il senese Francesco Bernardi, vera popstar dell’epoca. L’opera fu ripresa più volte a Londra negli anni seguenti, sempre con grande successo, ma non si può tuttavia recensire un’opera come questa senza almeno accennare a come l’opera barocca – soprattutto quella di Händel, Cavalli, Monteverdi – abbia vissuto negli ultimi decenni una rivoluzione registica che l’ha trasformata da repertorio dimenticato a terreno fertile per le regie più innovative: nell’Ottocento la ventata romantica aveva quasi del tutto divelto questa feconda pianta che, non dimentichiamolo, comprendeva pure, in alcune non secondarie ramificazioni, la cosiddetta Scuola Musicale Napoletana.
Alla vera e propria damnatio memoriae cui si assistette per più di cent’anni sopravvivevano solo poche pagine (oratori di Händel, Monteverdi riscoperto tardivamente): fu solo negli anni ’20 del Novecento, nel fecondo spirito della Germania di Weimar, che Oskar Hagen in Germania riscopre Händel con regie semplificate, tagli e orchestrazioni ancora romantiche, mentre occorrerà aspettare gli anni ’80-’90 del Secolo scorso perché il Regietheater venga con gran successo applicato al barocco: registi come Peter Sellars, Robert Carsen, David McVicar iniziano a trattare queste opere come materiali vivi, attuali, ancora capaci di parlare al presente.
Così la regia contemporanea trasporta la vicenda in epoche diverse o in spazi astratti, senza tradirne lo spirito, l’opera diventa metafora di stati psichici, sogni e conflitti interiori, grazie anche a tecnologie, proiezioni video, installazioni, giocando con il virtuosismo barocco come fosse iperteatralità ironica e metateatrale: una direzione scenica, in definitiva, che si basa sulla centralità del cantante/attore – recitazione vera, spesso esasperata – minimalismo scenico funzionale a concentrare l’azione sulla psicologia, uso del corpo che amplia il testo musicale, spiccata politicizzazione che è allegoria di potere, guerra, colonialismo, gender politics.

Il barocco, occorre dire, ben si presta a questo tipo di operazioni, perché le sue storie e le sue emozioni sono spesso intessute su archetipi scenici come potere, amore, vendetta facilmente (ri)leggibili in chiave universale, dalla struttura musicale aperta, che si sostanzia in arie da capo e recitativi secchi che lasciano ampio spazio al regista per intervenire con azioni sceniche, aiutato in questo anche dall’assenza di regie originarie, il che conferisce gran libertà di interpretazione, al contrario dell’opera romantica, molto più codificata.
E in tal modo ci siamo portati molto avanti col lavoro, perché a questo punto è molto più facile comprendere come il Giulio Cesare secondo Michieletto possa agevolmente parlare a chi, pur sprovveduto d’ogni specifica cultura, si trovi a sedere sulla poltroncina rossa d’un teatro d’opera. La drammaturgia – complessa e coerente, limpida e arcana al tempo stesso – messa in atto da Damiano Michieletto e ripresa per l’occasione da Diane Clement risponde in pieno alla tragedia del sentire che è questo Giulio Cesare, quasi imperfetto specchio della shakespeariana omonima opera che il pubblico londinese con cui Händel aveva a che fare conosceva così bene: se lì il centro dell’azione su cui s’appunta l’interesse del Bardo, l’omicidio del supposto tiranno, è perfetto baricentro intorno al quale s’intessono trame, passioni, interessi, qui il delitto politico si pone invece all’inizio, quasi congelando, al contrario, animi e azione – che praticamente non esiste – e trasmutando l’intera tragedia in una sofferta, a tratti esaltante, sempre dolente elaborazione del lutto e del vuoto improvviso – interiore, quello della ragione ed esteriore, quello di potere – che si viene a determinare.
Così sull’esile ragnatela della trama priva d’azione che è l’händeliano dramma in musica, quasi un susseguirsi di numeri chiusi fini a se stessi, il regista veneziano tesse il suo ordito, che a piene mani, potremmo dire, s’avvale d’un complesso insieme di segni e metafore, simboli e presagi, memorie e profezie, in una perfetta trasmutazione, ad uso e consumo di chi abita il nostro quotidiano, delle passioni e dei dolori che animarono quegli antichi personaggi, e in seguito quei primi spettatori, giungendo fino a noi nella congelata rarefazione del virtuosismo strumentale e vocale della musica barocca. È seguendo dunque il fil rouge dell’interiorità che possiamo anche noi percorrere questo elaborato labirinto delle passioni, in un raffinato percorso che con esasperata lentezza sa condurci alla meta finale passando attraverso una sorta di personale iniziazione che sa quasi d’itinerario spirituale che conduce dalla materialità del mondo sensibile, diremmo noi, al suo completo diradarsi.
Risente ancora, infatti, la prima parte, d’un qualche esile aggancio ad un realismo e naturalismo seppure fortemente stilizzato nella essenziale rappresentazione del mondo – esistono ancora rassicuranti mura bianche di palazzi e troni e tavoli e comuni esigenze come il mangiare e il bere, vestirsi e travestirsi – ma si fa strada, inquietante ma certa, l’irruzione progressiva e incombente di una realtà che, oscura nella sua volatilità per contrasto al candore della tangibilità quotidiana, incrocia le strade dei vivi obbedendo a diverse leggi fisiche, le Parche qui regolano vite e desideri, bilanciano odi e amori, srotolano il filo dell’esistenza e, all’occorrenza, lo recidono: lì è presente ormai l’anima inquieta di Pompeo che si riveste delle sue ceneri stesse, lì si rivolgono lacrime e attenzioni di vedove e figli, lì, in un geniale colpo di coda che chiude la prima parte, s’appunta anche l’interesse di Cesare che, come in uno specchio, guarda se stesso intrappolato nella ragnatela di fili rossi, metafora dei compromessi e dei legacci che, alla fine, lo perderanno, ma anche del teatro e del senso della tragedia, nella teoria di quinte che delimitano e circoscrivono l’azione – l’agitarsi inane dell’eroe tra diverse ed eguali esigenze – descrivendola e denunziandola come una sorta di rilucente ed insieme oscura metateatralità.
La seconda parte, poi, ha ormai perso ogni naturalismo, il mondo è una sottile ed accecante linea di luce che attraversa la scena, incurante delle passioni umane, oppure è lo specchio dove riflettere le nostre ambizioni e le nostre paure incarnate nella forma ricorrente del teschio del capro che rimanda al bafometto, simbolo della dualità tra spirito e materia, tra presente e futuro, tra intenzioni ed azioni, fino a che l’astrattezza delle forme prende corpo e sostanza in un sottile ma robusto velario di collophane che cala, opaco pur nella sua certificata trasparenza, dall’alto a chiudere il boccascena immergendo uomini e cose in una sorta di liquida e quasi oleosa atmosfera che alla fine, complice Sesto Pompeo alla ricerca di vendetta, soffocherà Tolomeo. Perfino lo sfolgorante trionfo finale di Cleopatra, del bene sul male, della civiltà sulla barbarie viene vissuto con ben più d’un velo di malinconia sul cuore, paure e follie si concretizzano infine nelle lame dei congiurati, presagio incarnato della morte di Cesare ai piedi dell’appena eretta statua di Pompeo (che benché vinto, ha vinto) rivestito dalle Parche di spada e armatura.
La diversa interpretazione delle modalità di esercizio del potere è alla base pure della caratterizzazione dei personaggi, a partire dai primi tre protagonisti per poi riflettersi anche nei comprimari: se questo è evidente dal punto di vista drammaturgico e musicale, occorrono, com’è ovvio, ottimi interpreti per render ragione al pubblico di tutto questo, riuscendo a far rivivere al meglio, per l’odierna sensibilità, un’azione teatrale che ormai ha trecento anni e che dunque soffre della estrema fragilità dell’età.
Se nella già citata omonima tragedia del Bardo Cesare è colui che scientemente sfida oscuri presagi e avverse volontà degli dei, nell’opera di Händel è protagonista assoluto, condottiero romano ma anche uomo capace di amare, non è un tiranno, la sua forza è temperata da prudenza, intelligenza e nobiltà d’animo. La drammaturgia di questo allestimento approfondisce questi aspetti, di fatto ne esce il classico eroe dall’animo diviso tra eguali ed avverse esigenze: in più possiede lo sguardo del contemporaneo, eternamente scisso tra cinismo e partecipazione, passione ed apatia, cui Raffaele Pe riesce a donare la credibilità di chi, ormai, pago di quanto finora ottenuto, confida, in fondo, solo in se stesso, archetipo di un certo potere prudente e guardingo, come in Va tacito e nascosto e incapace di svolgere un qualsiasi percorso salvifico, come nella già citata scena Se in fiorito ameno prato in cui si cimenta con il suo avatar prigioniero dopo aver verificato la sua incapacità di restituire la vita a un uccello morto: se la voce da controtenore risulta del tutto fluida all’ascolto, senza alcuno sforzo apparente, riuscendo in mirabilia pur senza strafare, alla fine è il perfetto equilibrio tra doti attoriali e musicali che arriva fin giù in platea.
Anche nella stesura händeliana Cleopatra è probabilmente il personaggio più complesso e moderno, capace di una non semplice evoluzione: se inizialmente si presenta come astuta manipolatrice che cerca di usare Cesare ai suoi fini, approda alla fine ad un sentimento sincero per l’eroe. Facile, dunque, la scelta registica di farle incarnare il sempiterno potere dell’effimero, in massimo grado oggi evidente – anzi ridondante – nelle eccessive ed egotistiche performance di influencer e social star varie, impegnate nella diuturna ricerca di un potere virtuale o reale che sia: Sandrine Piau possiede e sa metter in atto la non comune capacità di conferire al personaggio, oltre che una voce superba perfetta per il ruolo, anche una gamma espressiva che va dalle movenze frivole e quasi da operetta dell’aria e della scena Non disperar, chi sa?, a quelle più eleganti e seduttive di V’adoro, pupille risolta in una suggestiva liturgia della luce e dei candelabri, da quelle francamente erotiche di Venere bella all’infinita malinconia della celeberrima Se pietà di me non senti, traguardo finale di un doloroso viaggio nella propria intimità.
Chi invece soffre di una fissità monotematica del personaggio è il tipico fool incarnato da uno stralunato Tolomeo – con tanto di stilizzata marotte – cui il dramaturg affida il compito di sparigliare il gioco: se il pazzo spesso si fa interprete di schegge di verità che non possono trovare spazio e fortuna presso la ragione, il fool al potere – e non mancano di certo esempi nella travagliata contemporaneità nostra – è tuttavia figura tragica che esprime al meglio la parodia nefasta dello smarrimento d’ogni etica e d’ogni integrità. A lui, qui interpretato con fine maestria vocale e notevole approfondimento psicologico da Filippo Mineccia, sono con grande efficacia affidate arie cupe e minacciose, con tonalità minori e melodie spezzate come L’empio sleale, indegno, oppure Domerò la tua fierezza, in cui l’armonia spesso instabile e i salti intervallari sottolineano la sua crudeltà. È forse l’unico personaggio tra i principali che non cambia, rimane tiranno fino alla fine, rappresentando il polo negativo costante della vicenda.
Cosa che succede, in fondo, in modo speculare, anche al personaggio di Cornelia, moglie di Pompeo e madre di Sesto, personificazione della virtù romana, della dignità femminile e del dolore composto, in questo allestimento affidato alla potente voce di contralto di Sara Mingardo dal colore grave che ben si addice al pathos del personaggio, pilastro morale che dà profondità tragica all’opera. A questa roccia si aggrappa Sesto, giovane eroe che passa dall’impotenza alla maturità attraverso il desiderio di vendetta, ruolo en travesti affidato qui efficacemente a Giuseppina Bridelli, con arie di furore e coraggio che vanno disegnando un arco narrativo tra i più netti dell’opera. Degno di menzione anche l’Achilla – uno dei rarissimi ruoli per basso nell’opera seria di Händel, che privilegia voci acute – qui sostenuto con valore da Davide Giangregorio in cui tessiture gravi e accenti marziali, che evidenziano forza fisica ma anche durezza del carattere, son rese con perfetta caratterizzazione musicale e drammaturgica.
In ogni caso, dunque, una riacquistata “teatralità” di quest’opera barocca – che forse nel tempo si era un po’ persa – e che recupera la sua centralità grazie soprattutto alla direzione orchestrale di Stefano Montanari: il suo stile energico e la conduzione molto “espressiva” possono risultare per alcuni molto personali, ma questo è anche ciò che gli ha permesso di trasferire efficacemente la sua passione barocca in contesti teatrali. Occorre non dimenticare che Stefano Montanari è violinista barocco di formazione – diplomato in violino e pianoforte, con specializzazioni in musica da camera – che ha poi costruito una carriera doppia: da solista / concertatore su strumenti storici e da direttore d’orchestra in teatri e festival internazionali, fino a diventare figura stabile nella direzione d’orchestra proprio qui al Teatro Petruzzelli, venendo regolarmente invitato nei grandi teatri europei; dal 1995 al 2012 Montanari è stato primo violino concertatore e figura di spicco nell’Accademia Bizantina, ensemble che è stata e resta uno dei poli più importanti della prassi filologica italiana e quegli anni risulteranno determinanti per affinare la sua sensibilità per l’articolazione barocca, il fraseggio “retorico”, la cura dell’agogica e della variante ornamentale e per formarlo come direttore che “dirige dal violino / dal banco” nella tradizione del concertatore.
Tutto questo traspariva in modo evidente ieri sera: leadership fondata su ascolto e gesto comunicativo ravvicinato, tempi vivi e marcata sensibilità ritmica, ricercando chiarezza espositiva e contrasto dinamico fra recitativo e aria e valorizzando i contrasti timbrici tipici di Händel, dando rilievo a sezioni solistiche e a scelte di accompagnamento che enfatizzano retorica e affetti. Il che si traduce, alla fine, nel cercare e trovare inusitati spazi all’espressività di chi canta mentre l’orchestra risulta non soltanto incisiva ma responsiva alle ornamentazioni vocali, e dando spessore ad una conduzione che favorisce un dialogo in cui il cantante inventa abbellimenti supportato da una robustissima base strumentale.
Così, per noi seduti sulle nostre rosse poltroncine di platea, Händel diventa sul serio polifonia del presente, non già memoria di un polveroso passato, ma eterno teatro delle passioni umane: contiene, la sua musica, ogni possibilità di resurrezione, passando tuttavia, inevitabilmente, fatalmente, inesorabilmente attraverso il suo “tradimento”, non risiede la sua grandezza, infatti, in una supposta fedeltà filologica, bensì nell’inesausta capacità di accogliere nuove lingue, nuovi corpi, nuove scene, basta solo il coraggio di strapparla all’estetica da museo e restituirla, con sapienza, al rischio del presente.