[rating=3] Dipana la sua trama, l’apologo di questo Macbeth un po’ verdiano un po’ shakespeariano messo in scena qui al Petruzzelli, visionario e allucinato quanto basta, abitando un universo che, pur nel suo popolarsi d’incubi e fantasmi, appare tuttavia, a chi lo guardi, rigidamente suddiviso e sepimentato, quasi reazione razionale all’illogicità che preme s’insinua e pulsa: al centro, su nudo tavolato, si svolge l’azione, in quel che potremmo definire regno della realtà fenomenica, di ciò ch’appare (che, ovvio, non sempre e necessariamente abbia a coincider con ciò che è): i personaggi principali agiscono e dimorano in questa dimensione dell’apparenza e della pur precaria solidità.
Ai lati del palco, a sinistra di chi guarda, il coro femminile, alla destra quello maschile, tutti vestiti di nero: già solo in virtù della posizione che occupa, il coro non può far altro che assumere il ruolo di commento, giudizio, sottolineatura, come nell’antico teatro delle origini, voce dell’autore, a volte, certo, ma anche del mondo che assiste attonito allo spettacolo che va in scena, dell’ambizione e del prezzo pagato per essa; e se di volta in volta il coro assume pur la voce delle streghe o dei cortigiani, rappresenta sempre tutti noi che guardiamo, o meglio dà voce ai testimoni di ciò che avvenne: a me ricordava il pubblico, o i testimoni, di un processo per stregoneria nella Salem delle storie sulla caccia alle streghe; d’altra parte questo spettacolo molto si regge sulle suggestioni e sulla potenza evocativa della visione e delle immagini, come vedremo.
Sul fondo, separato dal mondo reale da un fragile velo, il mondo dell’invisibile dominato da un’alata androgina Ecate: viaggia liberamente dal mondo dei morti a quello dei vivi, dall’universo degli uomini a quello degli dei: una e trina, Ecate bisessuata ha in sé l’energia maschile e quella femminile, manifesta la propria presenza attraverso le tre streghe, che non son altro ch’emanazioni sue, ora animalesche megere barbute, ora avvenenti e seducenti fanciulle innocenti, ora gravide Empuse che vomitano il frutto del loro distocico parto nella notte illune che il protagonista dirà la più terribile della vita sua, (e sì che n’aveva viste, di notti orribili e sanguinose), notte buia degli oracoli veraci e fallaci e delle effimere visioni del futuro. È il mondo dei corpi aggrovigliati in una nudità esposta e vantata ma più espressione dell’essenzialità dell’anima di fronte al Giudizio, che pruriginosa evocatrice d’improbabili erotismi. Infine, le tavole del palco si aprono in botole di varia grandezza e misura che liberamente permettono il passaggio nell’un senso e nell’altro, a inghiottire anime dannate ma anche a nascondere nel ventre sotterraneo, che si suppone ben più capace del visibile, teste mozze e corpi in disfacimento, prove d’orrendi delitti e malcelate voglie.
È dunque un mondo sull’orlo del delirio visionario e folle, l’universo di questo Macbeth che il compianto Giancarlo Cobelli mise in scena la prima volta ben quattordic’anni fa per il teatro Comunale di Modena e che oggi vien riproposto, vivo e vitale più che mai, nella ripresa firmata da Lydia Biondi: mondo barbarico e potente, primitivo ma complesso, che certamente evoca tante suggestioni visive, dai nudi corpi infernali di Luca Signorelli, nell’uscire faticoso e contorto dal ventre della terra, alla contorta e vermicolare realtà rappresentata da Hieronymus Bosch, a certe illustrazioni della pop e comics art: come non pensare, guardando i nudi corpi degli armigeri, ai gialli soldati di Ming delle visionarie tavole di Alex Raymond, nel barbarico e alieno mondo di Mongo, servi aggiogati al sanguinario despota di turno? Suggestioni che in qualche modo ci risultano vicine e intime, e che rendono esplicita la vicinanza dei protagonisti col mondo infernale, già implicita, in fondo, nell’opera verdiana e nell’originale shakespeariano.
Così, la pur – per tanti versi – imperfetta opera verdiana, che nella versione definitiva, grazie anche alla revisione del libretto operata da Andrea Maffei sull’originale del fido Francesco Maria Piave, risulta così tanto simile al testo del Bardo, s’incarna in una terra di mezzo e in un tempo arcaico che, pur nella scontata e indefinita estraneità loro, finiscono per paradosso per sembrare alla fine familiari, come il male che vi viene rappresentato, oscuro e immondo, ma pur sempre umano, riconoscibile, riconducibile a un dato tangibile e familiare della vita nostra, pur nella straordinarietà della diabolica malvagità: il demone che è in noi riconosce esser quello il mondo suo, pur nell’enormità fantastica della rappresentazione teatrale: homo sum, humani nihil a me alienum puto.
La direzione di Fabrizio Maria Carminati è corretta pur senza trascinare: eccelle soprattutto nelle parti liriche (applaudito il coro di Patria oppressa), meno in quelle drammatiche; interessante la scelta di eseguire il finale originale con la morte in scena di Macbeth, soppresso da Verdi nella revisione del 1865, sostituito dal finale convenzionale di Macbeth, Macbeth ov’è?: opzione, tuttavia, oggi di frequente praticata nella messa in scena di Macbeth. Il coro, diretto da Franco Sebastiani è, come sempre, preciso, inappuntabile, pressoché perfetto negli attacchi e nelle intonazioni.
La voce di Salvore Cordella ha buona piacevole grana, ma come si sa il personaggio di Macduff non ha poi gran spazio drammatico, salvo la meritatamente famosa Ah la paterna mano, che il tenore interpreta con grande effetto riscuotendo l’applauso del pubblico. Il Banco di Ugo Guagliardo è espressivo quanto può esserlo il ruolo, dalla voce dal timbro pastoso e affascinante che tuttavia di tanto in tanto s’ispessisce perdendo in chiarezza. Lady Macbeth è uno dei grandi ruoli dell’Opera, adatto ad un’interprete completa sotto ogni punto di vista, che sappia cantare e che sappia soprattutto recitare: Daria Masiero ha, com’è noto, splendida voce di soprano lirico, che sa gestire con sicurezza ogni registro; ha saputo abbinare a queste doti una notevole espressività senza la quale ogni pur bella voce s’annulla nell’interpretazione del personaggio. Simile ragionamento vale anche per Luca Salsi nel ruolo del titolo: il baritono ha magnifico timbro scuro ma anche facili acuti, uniti a volume invidiabile; tuttavia in monologhi come Mi si affaccia un pugnal? tutto questo può essere addirittura deleterio, come ben sapeva Verdi, che non voleva solo ottimi cantanti, ma eccelsi attori: il baritono parmense ha saputo dimostrare d’essere questo e quello, meritando i lunghi applausi a lui tributati.