Home Lirica L’epica straniata delle grandi vele del Corsaro

L’epica straniata delle grandi vele del Corsaro

Il Teatro Petruzzelli a Bari apre la Stagione nel nome di Verdi

Il corsaro © Clarissa Rapolla

Entrando nella sala del Teatro Petruzzelli, una volta conquistata la nostra poltroncina di velluto, notiamo che quel che vediamo di fronte a noi non è semplicemente il sipario chiuso del palcoscenico, che invece è del tutto aperto. Un riquadro nero circoscrive infatti il boccascena – una sorta di teatro nel teatro, dunque – chiuso da una pesante tenda oltremare che, come fosse gonfiata da un robusto alitar di vento, in tutto simula la vela di un galeone, l’effetto è ancor più veritiero per la presenza di sartie e boline e bozzelli, mentre un albero di bompresso occhieggia sul lato sinistro. Perché si apre, questa Stagione qui a Bari, un po’ a sorpresa, con Il corsaro di Giuseppe Verdi, rappresentata per la prima volta nel 1848 al Teatro Grande di Trieste.

Pur essendo un lavoro senza dubbio minore, occupa un posto particolare nella produzione verdiana, composta in un momento particolarmente difficile della carriera del compositore, segnato da impegni pressanti e dall’instancabile ricerca di nuovi successi, i cosiddetti anni di galera che vanno dal 1843 al 1858 caratterizzati da lavoro forzato e massacrante. L’opera riflette l’intenso romanticismo del poema di Byron da cui è tratta, cercando un precario equilibrio tra conflitto interiore, desiderio di libertà e lotta contro il destino: tuttavia la profondità filosofica del poema si perde nella semplificazione del libretto, che manca, invece, di incisività. Ma se, dal punto di vista strettamente drammaturgico la trama si sviluppa in modo del tutto prevedibile, affidando la possibilità di suscitare un qualche interesse nello spettatore a pochi colpi di scena, rendendo difficile mantenere alta la tensione,  è soprattutto lo stile musicale di Verdi a rimanere ancora nel limbo dell’indefinita transizione, tanto forti sono ancora gli stilemi e le convenzioni del belcanto, pur  intravedendo sicuri elementi di maturità.

Si era cominciato a interessare, il Maestro, al Corsaro di Byron addirittura nel 1844, quando quel poema era molto popolare in italia, anche se  l’infatuazione byroniana era per il compositore, invece, di data abbastanza antica e aveva già prodotto alcuni frutti, come I due Foscari. A questo  punto si inserisce una confusa questione con l’editore Francesco Lucca, cui Verdi era legato per contratto e che prevedeva la messa in scena di un’opera nuova entro il 1846: per un po’ il compositore vagheggiò di poter addirittura rappresentare a Londra un’opera tratta proprio da quel poemetto di Byron e incaricò anche il fido Francesco Maria Piave di trarne un libretto. Tuttavia più i mesi passavano e più le cose si complicavano, come spesso succede in questi casi: altri progetti prendevano corpo, il Macbeth assorbiva sempre più tempo, il progetto dei Masnadieri lo affascinava sempre più, fatalmente Il corsaro comincio a perdere interesse e fascino.

Si arrivò cosi, fra litigi epistolari, rabbie e ripicche, al febbraio del 1848 in cui, con un vero e proprio scatto d’orgoglio, la partitura venne miracolosamente e rapidissimamente portata a termine: consegnandola un po’ riluttante nelle mani di Lucca, Verdi si offrì addirittura di dirigere la prima esecuzione dell’opera a patto che, naturalmente, gli venisse fatta una proposta decorosa. Quella proposta non arriverà mai, l’editore deciderà di portare il tutto a Trieste che non era certo città centrale nella vita teatrale italiana.

Il corsaro © Clarissa Rapolla

Da quel momento l’Autore si disinteresserà completamente della sua creatura che vedra la luce solo nell’autunno di quell’anno: la prima sarà un mezzo disastro, sparuti spettatori applaudiranno, dice la leggenda, lo scenografo, unico che ebbe, di tutta la compagnia, il coraggio di uscire, alla fine, sul proscenio. Ritirata dopo tre recite, lasciò il posto al ben più fascinoso Macbeth che nel frattempo era stato sfornato dalla prodigiosa macchina da lirica del Maestro, che più tardi avrà modo di commentare questo suo povero e negletto figlio con parole non certo consolanti, affermando che questa musica che ho scritto senza attribuirle importanza, per liberarmi di un editore odioso, probabilmente manca di ispirazione. Successivamente, con alterne fortune, Il corsaro fu presentato a Milano, a Venezia, a Napoli, per poi inabissarsi col suo galeone, destino condiviso con tante opere coeve e sfortunate.

Riapparve tuttavia, come una sorta di fliegende Holländer, negli anni Sessanta del Secolo breve, quando ne fu tentato a Venezia, nel cortile di Palazzo Ducale un repêchage finito malissimo tra perdita di voce del soprano, rintocchi del Campanile di San Marco, proteste, fuggifuggi degli orchestrali e intervento dei Carabinieri. Bisognerà attendere il 2008 perché quest’operina cosi scalognata potesse essere rappresentata come Dio comanda, ci pensò Lamberto Puggelli curandone al meglio la regia, grazie anche alle scene disegnate da Marco Capuana e ai costumi inventati da Vera Marzot: un’edizione di gran successo che – son passati più di quindic’anni – è da allora di riferimento ed è quella che si è scelta per aprire la Stagione barese stasera.

Perché è vero, ci si potrebbe chiedere a questo punto quali siano, alla fine del racconto molto poco edificante della nascita e della stentata crescita di un’opera siffatta, i motivi per ascoltarla ancora e per continuare a metterla in scena, ma, a ben pensarci, le ragioni di quest’apparente ostinazione sono insite nella memoria stessa che abbiam fatto delle peripezie e vicissitudini cui è andata incontro la sua complicata messinscena, prima di tutto perché è fedele testimone, questa partitura, di un certo modo popolare di intender il teatro d’opera e il teatro musicale in Italia e non solo.

Opere come questa hanno accompagnato, infatti, la crescita di intere generazioni di ragazzi ispirati a un forte sentimento romantico che poi riverberava potentemente nella Storia che quegli stessi giovani andavano costruendo; e poi non doveva essere poi così brutto, quello spettacolo, se è bastata la genialità di un uomo di teatro come Puggelli a farcela apprezzare a centosessant’anni di distanza dalla sua concezione e nonostante la sfortuna che l’ha accompagnata per tutto questo tempo: in fondo, come le Maggiori sue sorelle, da Traviata a Don Carlo, da Rigoletto ad Aida ha contribuito a renderci come siamo, nel bene e nel male. Naturalmente persistono alcuni difetti intrinseci all’opera, come la frammentarietà drammaturgica e la difficoltà di rendere convincenti i personaggi secondari, limiti mitigati ma non del del tutto superati, Il corsaro non riesce, ovviamente, a trasformarsi in un capolavoro del repertorio verdiano: questa produzione ha il pregio tuttavia di offrircene una lettura coinvolgente e appassionata, capace di restituire dignità e rilevanza a un’opera ingiustamente sottovalutata.

Il corsaro © Clarissa Rapolla

E lo fa partendo dal mare, motivo unificatore e fonte perenne d’ispirazione per il Maestro che, è noto, è nato a Busseto e dunque ben lontano da quel mare scuro che si muove anche di notte, non si ferma mai. E tuttavia, come in altre illustri occasioni, da Boccanegra a Otello, nell’onnipresente mare, sulla cui cellula musicale, eternamente eguale, eternamente cangiante, Verdi riesce a trovare una giusta misura, una familiarità inconsueta e dolce, un’ispirazione autentica e non di maniera, costruendo a poco a poco la sua partitura, come lo scrigno della parabola, da cui tirar fuori cose vecchie e cose nuove. E il mare – potrebbe essere diversamente? – è pure alla base dell’idea registica di Puggelli, nell’ormai lontano 2008; da allora, evidentemente, di acqua – come quella del mare – ne è passata sotto i ponti, i gusti son cambiati, le tecniche – sceniche e drammaturgiche – pure, e forse di più.

Ciò detto, per amor della verità e della cronaca, il vostro recensore deve chiedersi necessariamente se il peso degli anni pesi implacabilmente sulla rappresentazione (ciò che comunemente trova sintesi nella parola “datato”) oppure se, al contrario, questo incontrovertibile dato di fatto non influisca per nulla sulla fruibilità di questa messa in scena, rendendo l’opera, anzi, piacevole e avvincente. Il giudizio, evidentemente, come la verità, sta nel mezzo; il mare è, in questo caso, perfetto riflesso del concetto verdiano: più idea platonica che realtà, sempre uguale a se stesso eppure sempre mutevole, fondamentale archetipo del movimento da cui derivano tutti i cambiamenti e le forme, la vita stessa, non proponendosi un obiettivo descrittivo – non è certo musica a programma – piuttosto indicando il mistero, attraverso la mutevolezza e l’incertezza, teso a un’estetica del sottile, del leggero, del mobile e insieme del forte e dell’implacabile, dell’immutabile e dell’eterno.

Una ricerca di stilizzazione, in altre parole, che il regista, in una intervista definisce, con sottile allusione, come forma di straniamento epico, un modo come un altro per difendersi dalla piena romantica, dalla saturazione dei sensi e del pensiero che, per noi che abitiamo il contemporaneo, potrebbe rivelarsi fatalmente troppo ridondante e denso, risolvendosi, alla fine, in un incomprensibile e insopportabile esercizio di retorica. E dunque il mare c’è, ma mitigato da una sorta di processo di semplificazione estrema che, abbreviando le distanze tra noi e la scena, sottilmente la decostruisce senza troppo darlo a vedere, abolendo le differenze di superficie rispettando tuttavia le verità profonde, in quella che definirei solida astrazione, se l’ossimoro non risultasse, alla fine, fuorviante.

Si va dunque a rappresentare – la ripresa della regia è di Grazia Pulvirenti – tutta l’opera sulla tolda di una nave, abolendo, di fatto, altre ambientazioni, attribuendo semplicemente ad un codice di colore – il nero e il rosso – e ai diversi costumi l’appartenere all’una o all’altra delle parti, quella dei corsari dell’eroico Corrado e quella dei musulmani del perfido Selid. Così il gran gioco delle vele che si chiudono o si aprono al vento, gli alberi che simulano la stabilità d’enormi colonne portanti, lo scendere e il risalire inesausto di gomene, cime e canapi sapientemente ci restituisce un mondo marinaresco che sollecita memorie d’infanzia e racconti di pirati, e il mare è lì, lo intuisci oltre la balaustra della nave, segnando l’orizzonte di quel cielo azzurro screziato di nuvole bianche o nero della notte illuminata dalla luna piena.

Il corsaro © Clarissa Rapolla

Si alzano, tuttavia, quelle enormi vele, come fossero sipari, si muovono, quei canapi, come cavi dei macchinisti, il teatro – te ne rendi conto in un baleno – è sempre lì, appena sotto la leggera patina della fantasia scenica, il regista fa in modo da continuamente ricordarlo a te che siedi in platea, perché tu possa sapientemente prender le distanze da un troppo accentuato coinvolgimento, evitando l’identificazione con il personaggio o con l’ambiente, dominando le emozioni perché ciò che vediamo succedersi sulla scena risulti, alla fin fine, risaputo e alieno al tempo stesso, stimolando il nostro senso critico. In fondo è qui il segreto del successo di questo allestimento che, sanamente, con geniale semplicità, riesce a metter d’accordo il diavolo e l’acquasanta, la favola e il realismo, l’avventura e il pensiero, prosa e poesia, tradizione e contemporaneità del sentire, facendoci magicamente digerire incongruenze della vicenda e linguaggio anacronistico e pomposo, fino a donarci la felicità quasi infantile del gran teatro.

A questo contribuisce, certo, in modo determinante, la direzione rigorosa e precisa dell’Orchestra da parte di Stefano Montanari che riesce a farci dimenticare ogni difetto di questa musica ancor piena, di suo, di clamorosi difetti e richiami a un glorioso passato, sottolineandone, con misura e sapienza, i semi del Verdi che verrà, già ben presenti e vitali, purché li si sappia cercare, vedere, richiamare: segue la tradizione, il Maestro, ma senza alcuna pedanteria, lasciando invece trasparire l’amore per quella partitura così bistrattata – anche dallo stesso Autore – che facilmente potrebbe assurgere a simbolo stesso del famigerato zumpappa dall’eco bandistica e volgaruccia che soprattutto i tedeschi amano rimproverare al primigenio Verdi, in una sorta, invece, di recupero filologico del patrimonio prorompente e falsamente ingenuo di quegli anni fecondi di popolanità sincera e non scevra, per questo, di inapparente e studiata profondità.

E poi il Coro che, sotto la guida di Marco Medved, riempie ogni scena, sottolineando in modo potente e inequivocabile il carattere santamente popolare di questa musica, destinata ad essere cantata e celebrata nelle strade e nelle piazze, non a caso l’anno di battesimo del Corsaro è quel 1848 delle barricate e dei moti rivoluzionari, un canto di popolo e per il popolo che Verdi ha sempre saputo interpretare con un costante dialogo.

Il protagonista Corrado è tipico eroe bayroniano, uomo d’azione eroico e generoso ma con evidenti romantiche introspezioni, ben riesce a infondergli vita Rama Lahaj che unisce una voce omogenea e ben proiettata, dall’emissione limpida anche se un po’ imprecisa, ad una notevole presenza scenica che ben sa entusiasmare il pubblico. Che è intenerito e commosso anche dalla prestazione ineccepibile e coscenziosa di Guanqun Yu, Medora dalla presenza scenica fragile e tenera e dalla vocalità luminosa e sostanzialmente corretta, coloratura e trillo estremamente precisi.

Vocalità fluida, corposa e ben calibrata – pur con qualche sporadica debolezza sulla fascia alta – che è anche della Gulnara di Salome Jicia, un po’ meno convincente, tuttavia, quando affronta impervie coloriture. Completa il quartetto dei protagonisti, nei panni di Seid, Vladimir Stoyanov, che possiede molte qualità del tipico baritono verdiano, il colore giusto prima di tutto e poi il fraseggio accurato, la voce morbida e brunita. Alla fine, molti gli applausi per tutto il cast, schierato in palcoscenico come sulla tolda di una nave che, festosa, rientri in porto dopo una breve e felice navigazione.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Coro
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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lepica-straniata-delle-grandi-vele-del-corsaroIl Corsaro <br>Giuseppe Verdi <br>direttore Stefano Montanari <br>regia Lamberto Puggelli <br>regia ripresa da Grazia Pulvirenti <br>scene Marco Capuana <br>costumi Vera Marzot <br>disegno luci Andrea Borelli <br>maestro d’armi Renzo Musumeci Greco <br>maestro del coro Marco Medved <br>Corrado, Rame Lahaj <br>Medora, Guanqun Yu <br>Seid, Vladimir Stoyanov <br>Gulnara, Salome Jicia <br>Selimo Mauro Secci <br>Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli <br>Coproduzione | Fondazione Teatro Regio di Parma e Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova <br>In scena dal 17 al 23 gennaio 2025 <br>Durata, 2 ore e 30 compreso intervallo <br>Bari, Teatro Petruzzelli, 21 gennaio 2025

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