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La visionaria palermitudine dei Vespri siciliani

Torna al San Carlo di Napoli “I vespri siciliani” dopo tredici anni

Sono i pupi, ad aprire questi Vespri siciliani qui a Napoli, al Teatro San Carlo: prima ancora che cominci la bellissima Sinfonia, un uomo dal volto coperto e vestito di tuta rossa e blu – sapremo dopo che è la divisa d’ordinanza dei francesi, ovvero, in questa trasfigurazione scenica, dei mafiosi – scarica sul boccascena, a sipario chiuso, quel che sembra soltanto un informe ammasso di rifiuti e latte contorte. Ci metterà poco, quello scarto, a trasformasi, per l’appunto, in cinque pupi, certo, una delle icone più frequentate della Sicilia, ma non puoi far nulla per impedire che ti venga in mente come tutti possiamo considerarci pupi!… pupo io, pupo lei, pupi tutti: rianimati dalla potenza della musica, abbandoneranno il palcoscenico – per poi tornare più volte nel corso della serata – scordate marionette di sapor pirandelliano, all’aprirsi del sipario, proprio mentre viene mostrato un altro celeberrimo simbolo palermitano, la fontana Pretoria, anche detta della vergogna per l’esosa cifra che i cittadini pagarono per costruirla, a testimonianza che gli scandali siciliani ed italici non sono questione che riguarda solo la contemporaneità.

È una visione metamorfizzata, tuttavia, quella che si presenta agli occhi nostri, le statue, i nudi che circondano la fontana non sono tutti umani, mostrano in più punti un bestiale trasmutarsi, là una testa di cervo, d’anatra, o scimmiesca, quasi un cedimento all’animale che c’è in noi, congelato per l’eternità nell’immobilità aerea del marmo, che ci trattiene, ci imprigiona, ci irretisce fino a perderci. Ben s’accorda, questo procedere per simboli così pregnanti e potenti – che in qualche modo è cifra, da sempre, del lavoro di Emma Dante – con i caratteri di quest’opera verdiana così particolare: se, infatti, con Traviata Giuseppe Verdi chiude trionfalmente gli anni di galera, nel 1853, con Les vêpres siciliennes, nel 1855, apre una nuova fase della sua vita.

Arrivato alla piena maturità artistica e al successo internazionale ora può dedicare maggior tempo alla cura della tenuta di Sant’Agata e lavora con relativa parsimonia: se negli undici anni precedenti aveva composto sedici opere, nei seguenti diciotto ne scriverà solo sei. La differenza non evidenzia solo una maggior cura o impegno, perché tra le prime diciotto ci sono, ovviamente, autentici capolavori, dalla trilogia popolare in giù: testimonia, invece, la ricerca, in Verdi sempre viva, di nuove formule, accettando ulteriori sfide che continuamente lo stimolassero verso imbattute strade. È in questo clima che nasce Les vêpres siciliennes – ovvero, nella versione italiana dello stesso anno I vespri siciliani – che molto risente di tutto ciò, essendo per l’appunto la prima tappa di un nuovo corso, in cui sono molto vive, più evidenti, le ambivalenze tipiche di questo momento di sospensione e ripensamento.

Prima di tutto perché è un grand-opéra, scritto in francese per il pubblico parigino, obbedendo a un canone rigidissimo scritto addirittura alla fine dei Seicento, regole ferree che comportavano, per chi malauguratamente non si fosse adeguato, un sicuro insuccesso: ne farà le spese, qualche anno dopo, perfino Richard Wagner che, nel 1861, ormai ricco – ma sempre indebitato – e famoso, andò anche lui alla conquista della Capitale cui più teneva, e che più odiava, con Tannhäuser, nel frattempo “ristrutturato” secondo le notevoli innovazioni stilistiche post-tristaniane, messo in scena dopo 160 estenuanti – non ho ragione di dubitarne – prove d’orchestra, andando incontro, ovviamente, ad uno dei più clamorosi fiaschi della sua carriera, lodato solo da qualche sparuto intellettuale della Parigi che non contava nulla, come un tal Baudelaire.

E poi perché il libretto, scritto dal più importante dei librettisti francesi dell’epoca, Eugène Scribe, estetizzante, aulico, importante, è tutto giocato sulla contrapposizione tra sentimenti e allegorie, poco concedendo allo scavo psicologico dei personaggi, tranne forse per quello di Giovanni da Procida: non c’entrava proprio nulla, dunque, con la poetica verdiana e la sua concezione teatrale, e non c’era alcuna possibilità, per il musicista, di lavorare fianco a fianco a Scribe così com’era abituato a fare con Piave o Cammarano, per correggere, tagliare, emendare. Occorreva, per il compositore, percorrere una strada diversa e in salita, e la sfida lo stimolò ad andare avanti, facendo di necessità virtù: se il libretto descrive solenni gesta di eroi chiusi nella loro olimpica imperturbabilità neoclassica, come quadri di David, la musica verdiana riesce nell’incredibile scommessa di accendere quelle passioni di vera emozione, trasmutando per incanto quegli astratti simboli in carne e ossa e sangue, avvicinando molto quella vicenda alla vita vera.

Non appare molto distante da questo intento verdiano l’operazione complessa tentata, e in gran parte vinta, da Emma Dante e dai suoi collaboratori, Carmine Maringola che ha ideato le scene e Vanessa Sannino i costumi: si spinge, la tensione verso una quotidianità che incrocia le nostre vite, fino a far sovrapporre la storica rivoluzione palermitana del Lunedì dell’Angelo dell’Anno di Grazia 1282 con la riscossa della stessa città contro la mafia dopo le stragi del 1992 e l’assassinio dei giudici Falcone e Borsellino, le cui effigi, insieme a quelle dei tanti morti per mafia, vengono portate in processione, all’inizio, da una Duchessa Elena – sorella di Federico d’Austria ucciso dai francesi – che evoca Rita Borsellino, colta nell’ansia di rendere giustizia al fratello morto per mano mafiosa, fin troppo facile l’identificazione degli oppressori con i mafiosi, che significativamente contrappongono le loro armi automatiche al popolo armato solo di coltelli e fiocine.

Vespri siciliani

La metastoria che ci viene raccontata e rappresentata evita, allora, la pura rievocazione di fantasmi del passato, il crogiolarsi imbelle e passivo nelle macerie della storia, ci aiuta invece a renderlo vivo di fronte a noi, diventa la chiave che ci viene fornita per aprire porte chiuse della memoria, collocare di nuovo in piena luce materiale vivo che l’ansia aveva rimosso, insabbiato, avvolto nella nebbia viscida della smemoratezza, riuscendo a render pienamente vitali simboli e allegorie destinati altrimenti a vegetare nel chiuso degli archivi, in una operazione che ha veramente tutti i titoli per chiamarsi “verdiana”, perché esattamente in linea con quella che il Maestro cercò e trovò più di centocinquant’anni fa, scardinando dal di dentro il concetto stesso di  grand-opéra: “Vivo quest’opera come la commemorazione di un momento drammatico. Nei Vespri c’è un popolo oppresso dagli invasori francesi, ma sono oppressori anche i mafiosi. In questo Verdi è attualissimo, con le sue note raggiunge il cuore di tutti, ha la capacità di scendere tra noi. Ed è significativo che l’opera, la musica, siano serviti a noi, oggi, per cercare di reagire alla malavita. A Palermo come a Napoli, come in tutt’Italia”.

Così, presentato a Palermo questo allestimento nel 2022, arriva fino a noi, oggi, il Teatro lo inserisce nel progetto “Il San Carlo per il sociale – I volti della memoria per un presente di legalità”, due repliche, quella del 24 e del 31 gennaio avverranno alla presenza dei familiari delle vittime di mafia e dei rappresentanti delle associazioni che si occupano di mantenere beni confiscati alle mafie. Se c’è qualche limite, in questa appassionata trasposizione, è peccato d’origine, perché manca, ai Vespri – occorre dirlo – quella concisione drammaturgica che è forse la maggior dote delle migliori opere verdiane, in cui tutto, musica, teatro, linguaggio, caratteri, gesti, congiura e trova, insieme, una sua stringente coerenza: va dato atto, allora, alla regista palermitana, di aver (ri)vitalizzato oltre misura ciò che di buono c’è nella partitura e nell’aver cercato di metter da parte, senza forzature, ciò che non solo è lontano dalla nostra contemporanea sensibilità, ma anche dalla più schietta poetica dell’Autore.

Come non pensare, allora, come la descrizione dei predatori abusivi non si limiti a una generica evocazione di teoriche e lontane violenze, si spinga invece fino a mostrare, senza veli, potremmo dire, la loro concezione – per esempio – della donna, trasformata in sacchi d’immondizia, nella scena dello stupro e del rapimento delle spose; è, questa degli oppressori, una genìa di vigliacchi che, sempre a capo coperto, assumono sovente pose sgraziate e oscene, spesso accarezzandosi i genitali, le mani sempre in tasca con aria strafottente, pronti alla violenza, o ancora colti a sguazzare nel falso sfarzo della festa, affogati nella pacchianeria dell’oro degli arricchiti col sangue dei miseri, anch’essi inchiodati alla responsabilità delle loro paure e miserie, vestiti di coppola e di lutto, fino al risveglio e alla collera del massacro finale, in forma di mattanza, evocata e richiamata in vari punti lungo il corso della commemorazione, in particolare riassunta nella figura della candida rete per tonni, prima usata – con una modalità tipica della regista palermitana – come velo da sposa per coronare metaforicamente il sogno d’amore di Elena e Arrigo, alla fine come strumento di morte e di vendetta contro i mafiosi, tenuti fermi da quella rete mentre, guizzanti come tonni in trappola, vengono colpiti dalla fiocine dei palermitani.

No, a ben vedere, non c’è solo mafia, in questo gran quadro corale di Sicilia, rimangono negli occhi e nel cuore alcune potenti scene che non si dimenticano, tasselli che vanno a comporre un Mosaico della Memoria che non contempla solo i luoghi dove si sono consumati sanguinosi delitti, arriva, il ricordo lucido e attento, a restituirci una visionaria immagine della Città, tessere di una palermitudine appassionata e affranta, frammenti d’una poetica del sangue e della carne, dalla barca Rosalia che riporta a casa Procida librandosi nell’aria all’evocazione della Santuzza Rosalia, prima solo attraverso i suoi simboli – il cranio e la croce – successivamente vera statua vivente portata in processione come nel giorno del u fistino, dallo stigghiularu dell’autentico cibo da strada alle teste di moro caltagironesi, dall’evocazione commossa della madre di Arrigo alla festa di piazza con tanto di luminarie nell’unico momento di pace e di fragilissima serenità: non solo colore, non solo sterili stereotipi, ma vera e propria narrazione, gioco incrociato di icone e simboli che ad altro rinviano, che sotto i nostri occhi trasmutano, cangiano, fino a diventare trasparenti immagini di una celebrazione assorta e rapita, che canta un mito senza tempo, liturgia della vita che ti entra nel sangue e ti possiede.

È un percorso, quello tracciato da Emma Dante, che si dipana sotto i nostri occhi e che trova il suo fondamento sulle ragioni del cuore più che su stringenti consequenzialità drammaturgiche, e questo comprendo che spesso possa anche non piacere – credo che non ci siano mezze misure, con la regista siciliana, o la si ama o la si detesta – ma che va a costituire, per il tramite di vivide emozioni, un potente ritratto della società e delle tensioni politiche del tempo presente che si rifrange, immutabile, nella descrizione del mondo e della storia, in una sorta di circolarità delle opere e dei giorni.

E poi musicalmente ci siamo senz’altro incuriositi: Henrik Nánási, di cui abbiamo toccato con mano, si può dire, l’intensità della direzione, ha guidato brillantemente l’Orchestra del Teatro San Carlo durante le quasi quattro ore di spettacolo, lirismo, tensione, chiarezza, energia che infiamma il pubblico e che non smette mai di alimentare le braci di questa partitura che sotto la sua bacchetta assume un rilievo drammatico che raramente abbiamo ascoltato, pur senza mai cedere alle lusinghe d’un facile colore. È uno stile di direzione sobrio e misurato che non evita affatto la passione ma che rifugge l’effetto scontato e piacione, ben lontano da ogni facile maniera verdiana, scavando, per ciò stesso, fino in fondo nelle intenzione dell’Autore, mettendole in luce sotto la patina di forzata mondanità del grand-opéra.

Muovendosi tra tradizione e innovazione, si è giunti, in questa versione napoletana, a scelte musicali in parte diverse dall’originale palermitano: ma lì si metteva in scena Les vêpres siciliennes, l’originario grand-opéra, distribuendo tuttavia la coreografia delle Quattro Stagioni nel corso dell’opera, illustrando momenti diversi, con uno spirito, secondo l’opinabile parere di chi scrive, più vicino alla contemporaneità. I vespri siciliani, invece, l’opera italiana che da quella francese deriva, messa in scena qui a Napoli, non prevede che la coreografia occupi uno spazio così importante, e questo senz’altro porta ad una diversa percezione dell’opera nella sua integrità, rispondendo a canoni, se si vuole, più sobri e con meno cedimenti allo spettacolo puro.

E si muove in questa direzione pure il Coro, guidato dal nuovo direttore Fabrizio Cassi, che, in qualche modo, ha avuto l’occasione di esordire in modo splendido: è, questa, una di quelle opere in cui, ampiamente favorita dalla struttura stessa del grand-opéra, le masse corali hanno più spazio, avendo l’opportunità di figurare da protagoniste; possibilità ben sfruttata, occorre dire, trovando sempre il giusto equilibrio nella complessa dinamica teatrale, coadiuvato anche da una compagnia di attori e danzatori che travalica la solita presenza di mimi. Cerca e trova, il Coro, allora, la sua dimensione più autentica nel Coraggio, su coraggio, del mare audaci figli, del Primo Atto, autentico coro verdiano dal sapore risorgimentale, ma pure nel già citato momento della festa dell’Atto Ultimo, Si celebri alfine tra canti, tra fior, in cui ritracciare sapore di schiettezza popolare autentica e purtroppo fugace.

Nei panni di Arrigo, Pietro Pretti mostra un’innegabile resistenza vocale e tiene molto bene nella grande aria Giorno di pianto, di fier dolore! del Quarto Atto, la voce ha un timbro fresco, ardente anche se tormentato nella seconda parte, diviso com’è tra amore e dovere. Il canto sulle note alte dà l’impressione di straordinaria facilità e attenzione alla partitura, con grande riguardo e comprensione teatrale del testo soprattutto nel duetto con il padre ritrovato, Monforte, e poi, cosa da non sottovalutare, il suo fraseggio è particolarmente chiaro e ben ponderato.

L’aria del Terzo Atto di Mattia Olivieri In braccio alle dovizie riesce a trasmetterci l’emozione gioiosa di un padre, passando anche attraverso l’evocazione del fantasma della madre d’Arrigo, che arriva a mettergli in braccio un bambino che si rivela fatto di nulla, un altro poetico tassello che ben descrive questa ulteriore, ennesima declinazione del classico Padre verdiano: e poi in questa, che è forse l’aria più bella e tormentata scritta da Verdi in quest’opera, il baritono, che pure aveva dominato nell’edizione palermitana, canta con una linea così elegante – un pianissimo bello e sostenuto – che scioglie il cuore, rivelando una voce potente ed espressiva in egual misura.

Oltre al suo incantevole O tu, Palermo, terra adorata, Alex Esposito affronta alla grande tutte le insidie legate al personaggio di Giovanni da Procida, sorta di Lenin dell’epoca, esule rivoluzionario che torna in patria in barca piuttosto che su un vagone piombato: stessa determinazione, direi, nella descrizione di un personaggio controverso che porta su di sé tutte le contraddizioni della modernità. La sua voce ricca e corposa mantiene una linea di canto come sempre correttissima ed elegantissima, riuscendo a cogliere la bruciante spietatezza del personaggio, la sua risolutezza energica e suicida pronta ad uccidere se stesso e chiunque altro si frapponga tra sé e i suoi obiettivi, in un misto di fermezza e realpolitik fino al bagno di sangue finale.

Ultima ma non certamente ultima tra i primi attori di questo straordinario cast, Maria Agresta, da qualche tempo molto attiva qui a Napoli, ci restituisce un’Elena raffinata che sa gestire molto bene la coloratura e dotata d’intelligenza musicale che le fa vivere la fragilità della linearità e costanza del proprio sentire emotivo, rispetto alla morbosa esagitazione dell’uno e dell’altro dei comprimari, fino a diventare, fin da subito, lei stessa protagonista della scena. Certo, è nella drammaticità, che più alto si leva il suo canto e che ha modo di far risaltare la sua perfetta presenza scenica: così è, per esempio, alla fine del suo grande assolo nel Quarto Atto, ma riesce anche a catturare la nostra attenzione nei momenti giusti, da sola o nei concertati, in cui la sua voca immancabilmente svetta sicura e di grande effetto.

Alla fine grandi applausi per tutti e naturalmente qualche accenno di contestazione alla regia, questa volta però subito abortito e letteralmente subissato da un vero uragano di applausi: ma la prassi del fischio facile e preventivamente organizzato, diventata ormai consuetudine qui al San Carlo, grazie ad un manipolo di melomani arrabbiati, non costituisce più nemmeno motivo di cronaca, punendo indiscriminatamente, inesorabilmente e uniformemente chiunque osi dire una parola nuova in tema di regia lirica, perdendo, in tal modo, gran parte, se non tutto, il valore anche meritorio che, sempre, ha il dissenso in ambito teatrale. Questa volta, poi, non si son quasi sentiti, fino a farmi venire il dubbio che non abbiano capito fino in fondo la grande carica rivoluzionaria di questa regia, magari si son fatti ingannare dai costumi senza tempo oppure, chissà, avranno preso lucciole per lanterne scambiando le fiocine del popolo per alabarde medievali e si saranno acquetati, paghi di una fantomatica fedeltà librettesca. In fondo, ci vuol così poco.

 

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Coro
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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la-visionaria-palermitudine-dei-vespri-sicilianiGiuseppe Verdi <br>I vespri siciliani <br>Direttore, Henrik Nánási <br>Regia, Emma Dante <br>Scene, Carmine Maringola <br>Costumi, Vanessa Sannino <br>Luci, Cristian Zucaro <br>Guido di Monforte, Mattia Olivieri <br>Il Sire di Bèthune, Gabriele Sagona <br>Il Conte di Vaudemont, Alessandro Spina <br>Arrigo, Piero Pretti <br>Giovanni da Procida, Alex Esposito <br>La Duchessa Elena, Maria Agresta <br>Ninetta, Carlotta Vichi <br>Tebaldo, Antonio Garés <br>Roberto, Lorenzo Mazzucchelli <br>Danieli, Francesco Pittari <br>Manfredo, Raffaele Feo <br>Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo <br>Coproduzione Teatro di San Carlo di Napoli, Teatro Massimo di Palermo, Teatro Comunale di Bologna e Teatro Real di Madrid <br>Opera in Italiano con sovratitoli in Italiano e Inglese <br>Durata: 4 ore e 20 minuti circa, con due intervalli <br>In scena da 21 gennaio al 3 febbraio 2024 <br>Napoli, Teatro di San Carlo, 21 gennaio 2024

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