Non fu certo propizia la sorte con L’Angelo di fuoco di Sergej Prokof’ev che in questi giorni si rappresenta a Bari, al Teatro Petruzzelli; la Fondazione è come sempre fedele alla sua vocazione verso la cultura e il mondo slavo, sapientemente inserendo nella sua programmazione stagionale, in questi ultimi anni, un’opera russa. Da quando, poi, la guerra ucraina grava come un oscuro macigno sulle nostre coscienze europee, il gesto assume, inutile nasconderlo, importanza e rilievo singolari ed eccezionali; tanto più la cosa diventa significativa quando si decide di metter sulla scena un’opera come questa: la compose, il suo Autore, attraverso un lunghissimo arco di tempo di circa sette anni, cosa a maggior ragione sorprendente se si considera l’abitudine di Prokof’ev, al contrario, a chiudere rapidamente i suoi lavori.
I primi abbozzi risalgono sicuramente al 1919, durante il primo soggiorno americano, in un momento difficile della sua carriera e della sua vita: “Io ero arrivato troppo presto”, scriverà ironicamente nella sua Autobiografia, “la giovane America non era abbastanza matura per apprezzare la musica giovane!”, un romanzo dello scrittore simbolista Valery Bryusov gli dà lo spunto per cominciare la stesura del libretto. E’ un lavoro complesso, quel romanzo, e di molteplice ispirazione, in cui sotto l’apparenza di vicenda storica ambientata nella Germania del Secolo manierista si celano ben altri motivi d’interesse: l’occulto, la magia, l’esoterismo ma anche la frenologia, lo studio dell’isteria, della malattia mentale, il tutto condito da un erotismo passionale e sfuggente insieme, torbido e casto allo stesso modo.
E poi c’era un’altra circostanza di cui tutti i contemporanei – e presumibilmente anche lo stesso Prokof’ev – erano a conoscenza: sotto i fittizi nomi dei protagonisti del triangolo amoroso del romanzo, Ruprecht, Renata ed Heinrich, si celavano nient’altri che lo stesso Bryusov, Nina Petrovskaya e Andrei Bely. Nina era la moglie del proprietario della casa editrice Grif e patrona di un salone letterario, Bely il suo amante, che tuttavia l’aveva lasciata per un’altra donna. Per ripicca Nina divenne l’amante di Bryusov che a quel tempo era impegnato in ricerche sulla magia nera, l’occultismo e lo spiritismo, benché di suo fosse profondamente positivista e scettico.
Da notare, comunque, che anche gli altri due “poli” del triangolo erano perfettamente a conoscenza di come Bryusov scrivesse un romanzo sulle loro vicende personali, tanto che la stessa Nina Petrovskaya ricorderà poi come “in me trovasse molto dell’aspetto romantico di Renata: disperazione, desiderio di un passato fantasticamente fascinoso, disponibilità a gettare alle ortiche la propria esistenza, idee e aspirazioni religiose oblique, avvelenate da tentazioni demoniache… isolamento dalla vita quotidiana e dalle persone, quasi odio per il mondo”. Sia come sia, Prokof’ev comincia a scrivere le battute dei personaggi direttamente a margine del libro di Bryusov, ma ci metterà almeno tre anni per la prima stesura della musica, completata nel 1923 a Ettal, nelle Alpi bavaresi, dove si era nel frattempo trasferito con la prima moglie Lina.
Ospita, quella città di forte impronta medievale, un enorme monastero benedettino, accanto, nella vicina Oberamergau, ogni anno si svolgono i Misteri della Passione di Cristo, tutto ciò non può che accendere la fantasia di Prokof’ev, a quel tempo molto vicino a Christian Science, movimento paracristiano sorto in America, al quale il compositore rimase comunque fedele fino alla fine della sua vita. Ma più si immergeva in quella dottrina, di cui uno dei postulati principali è la tesi dell’immaterialità del male, più la trama dell’Angelo di fuoco gli sembrava inappropriata, fuori luogo, quasi una bufala: avrebbe voluto strangolare l’autore e pensò addirittura di bruciare il manoscritto, come fece Gogol con il secondo volume di Anime morte. Ma questo fortunatamente non avvenne: fino al 1929 lavorò alla partitura, ma tutti poi si rifiutarono di metterla in scena, finirono con un nulla di fatto anche le trattattive con Bruno Walter, che nel ’26 dirigeva la Stadtische Oper di Berlino, per un possibile allestimento.
Solo una volta, nell’estate del 1928, a Parigi, Prokofiev poté assistere al secondo atto eseguito in forma di concerto, grazie a Sergej Kussevitzkij: c’erano “tutti”: da Stravinsky, Natalia Goncharova e Mikhail Larionov ai direttori d’orchestra Leopold Stokowski e Thomas Beecham. Sebbene Prokofiev insistesse per abbreviare la scena più potente dell’evocazione dello spirito, la partitura fece un’impressione sbalorditiva: si sperava così di suscitare l’attenzione di qualche teatro, ma nonostante il promettente successo di quel primo assaggio, nessuno si fece avanti, l’opera era ormai comunemente giudicata inadatta alla messa in scena, sepolto ormai anche solo il ricordo, il manoscritto perduto.
Solo nel 1954, molti anni dopo la morte dell’autore, l’opera poté esser rappresentata, tutta intera, in forma di concerto al Théâtre des Champs Elysées; l’anno dopo, in apertura del XVIII Festival Internazionale di Venezia, finalmente l’opera risorse in forma scenica (in lingua italiana), sulle sponde del mediterraneo, per la direzione di Nino Sonzogno e la regia di Giorgio Strehler, diventando solo in seguito popolare dopo una serie di revisioni e adattamenti. Per esser messa in scena in Russia, toccò aspettare ancora trent’anni: nel 1984 il Teatro dell’Opera e del Balletto di Perm ne produsse un allestimento se pur con enormi tagli dovuti alla censura, mentre destò sensazione la messa in scena del Teatro Mariinsky sotto la direzione di Valery Gergiev nel 1991, dove i ruoli principali furono interpretati da Sergei Leiferkus e Galina Gorchakova. Un destino unico, credo, nulla può spiegare come un’opera lirica, notevole per la sua complessità armonica e ritmica, con un mix di melodie intense e dissonanze raffinatissime, presentando anche un uso innovativo dell’orchestrazione e dei colori orchestrali per evocare atmosfere suggestive e inquietanti, possa aver incontrato, tuttavia, nonostante il suo valore artistico, tante difficoltà nella sua produzione e ricezione: le tematiche oscure e provocatorie, in tutta evidenza, insieme alla complessità musicale, hanno reso l’opera difficile da digerire per il pubblico dell’epoca.
È un mondo ctonio, ipogeo, che trae dalla terra la sua forza e la sua stessa vitalità, quello descritto dalla visione di Emma Dante – ancora una volta una resurrezione mediterranea – universo perennemente in crisi e pronto a precipitare in un qualche abisso reale o immaginario, ponendo di continuo domande inquiete allo spettatore, seguendo l’incalzare senza tregua dei suoni e dei colori orchestrali: esplosione e sisma caotico e tumultuoso nel suo continuo crearsi e disfarsi, cui solo una regia dalle idee chiare può riuscire a dare ordine e fine. Il continuo, perpetuo divenire della materia sonora e drammatica descrive il dinamismo stesso dell’animo umano, che si riflette, in modo pallido, riduttivo, eufemistico, sulle vicende che si susseguono sulla scena, metafora d’un inconoscibile altrove e testimone reticente di manchevole, perenne, distocico parto: se quel che vediamo riprodotto sulla scena, alla fin fine, attenga alla sfera del reale, passando attraverso i nostri esterrefatti sensi oppure s’inveri solo nella testa della protagonista, delirio vano di chi si pone al di fuori d’ogni principio di tangibile verità, è domanda che non ha e non riesce a trovare – in tutta evidenza – alcuna risposta, ma poi non ha molta importanza, alla fin fine, ciò che veramente conta è, in fondo, l’umanissima vicenda di Renata, in un faticoso e affranto succedersi di speranze e desideri, sofferenze e incertezze.
“Renata è una donna ossessionata dal desiderio” dice la regista “Direi assatanata. Una visionaria, spregiudicata, che finisce nel fuoco dell’Inquisizione. Del resto, la sessualità delle donne è sempre stata considerata oscena. Vietata. Se al posto di Don Giovanni ci fosse stata una Don Giovanna, sarebbe finita nel rogo pure lei”. E in fondo essa, a ben guardare, per ciò che ne sappiamo, potrebbe esser già morta, una morta vivente del tutto simile agli zombie che vediamo agitarsi, ciascuno nel proprio loculo, nel primo atto: se la sordida mansarda della locanda viene trasfigurata, per i nostri sensi, in cripta, è poi del tutto naturale vestire Renata con lo stesso abituccio rosa che indossa la bambina imbalsamata del Cimitero dei Cappuccini a Palermo, l’ultima ad essere inumata li, negli stessi anni di concezione dell’opera. C’è molta palermitudine, com’è ovvio che sia, in questo lavoro, per nulla scontata, sorta di benefica e fertile contaminazione delle algide pratiche esoteriche mitteleuropee con la superstiziosa e per certi versi ancora pagana ostentazione della morte tipica del calore mediterraneo, non certo un memento mori, anzi vera sconfitta della morte: si vestono, i morti, si nutrono, si pettinano, con essi si parla e si discute, si prega e si tace.
Si colora così, il palcoscenico, di picari variopinti e laceri che sembrano composti della stessa materia dipinta da Esteban Murillo, di avventori della piazza di Colonia che una provvida mano sembra aver trasposto qui direttamente della locanda d’un presepio di Sammartino, perfino Mefisto, intervenuto con Faust, sembra un saltimbanco che alla Vucciria prende in giro coi suoi trucchi creduli villici, e poi preti in cotta e stola in libera uscita da una processione, monache che marciano inquadrate in lunghissime toghe di velluto, tutto un mondo popolano e popolare estremamente vitale che tuttavia mai ci appare in contrapposizione a quello oscuro della morte, piuttosto gli si pone accanto, lo completa, perfino lo spiega e ne cerca un senso, perché vita e morte non sono, in fondo, che facce della stessa medaglia, una in continuità dell’altra, l’una è anzi, potremmo dire parafrasando von Clausewitz, prosecuzione dell’altra con diversi mezzi.
E poi, naturalmente, c’è lui, Madiel’ – angelo o demone in fondo che importa? – che frulla in aria le gambe come fossero ali, quasi appeso a testa in giù come Shemhazai, angelo caduto che s’innamorò di Ishtar, archetipo immacolato e intangibile e turgido della sessualità maschile, immagine sfuggente, ossessiva e lussuriosa insieme, che Renata è pronta a vedere a cercare e seguire ovunque, fin sul rogo e alle fiamme a cui la condannerà un esorcista bigotto che sembra costruito a immagine e somiglianza del Grande Inquisitore di Dostoevskij: “Se Cristo tornasse oggi…?”.
La domanda trova una sua risposta nell’enorme crocifisso appeso sul fondo, ossuto come uno scheletro calcinato ma dichiaratamente femminile, mentre Renata, ormai rivestita come una madonna addolorata va incontro al suo destino: immagini forti che evocano echi e suggestioni di una religiosità certo popolare ma non scontata, ben lontana da ogni blasfemia e da ogni integralismo. Sul piano musicale Jordi Bernàcer dirige con autorità non comune una partitura complessa, in cui l’uso intensivo del leitmotiv wagneriano si alterna, con successo, a riconoscibilissime suggestioni della tradizione russa, il tutto, naturalmente, temperato dall’ironia parodistica così tipica di Prokof’ev e dall’espressionismo che ci riporta all’ epoca della composizione.
Renata viene resa con grande efficacia da Madina Kerbeli che, praticamente sempre in scena, ha potuto mettere in evidenza le sue qualità, sia sul piano vocale che interpretativo: il risultato è una notevole credibilità per un personaggio, come si è visto, eternamente in bilico tra realtà e miraggio, innocenza e lussuria, vita e morte. Così è stato anche per Ramaz Chikviladze, Ruprecht di buona fattura, dalla voce ricca di armonici e, sul piano interpretativo, perfetto personaggio cinico e poco incline alla credulità, da un lato voce dell’Autore, dall’altro, confermando l’eterna ambiguità di questa partitura, prototipo del maschio profittatore, lontanissimo dall’ideale Madiel’ e per questo oggetto, tanto spesso, dei rimbrotti e delle recriminazioni di Renata.
Ma in questo lavoro tanto ricco di personaggi devo dire non sfigura nessuno, un gruppo di seri professionisti che hanno saputo ben interpretare una varietà notevole di tipi diversissimi. E così per il già ricordato Inquisitore dalla voce buia di Byung Gil Kim e per l’ironica caratterizzazione del Mefistofele di Mert Süngü, compagno di viaggio e d’avventure dell’altissimo Faust interpretato da Sava Vemić; l’Indovina, sottile metafora della morte è una brillante Natalia Gavrilan, mentre la Padrona della locanda è una perfetta Nino Surguladze, accompagnata dal marito, uno stentoreo Stefano Marchisio; il saggio Agrippa è Tigran Melkonyan, la Madre superiora Chiara Mogini, Jacob Glock Gregory Bonfatti, Mathias Wissman Mariano Orozco, il Servo Francesco Leone, per finire con la Prima e la Seconda novizia che sono interpretate rispettivamente da Stella Hu e Aoxue Zhu.
A questi artisti si aggiunge il perfetto Coro del Teatro Petruzzelli diretto da Roberta Peroni, che non stenta a trovare una sua dimensione, sia sul piano musicale che teatrale, e gli Attori che da sempre accompagnano Emma Dante: in tutto, come dice in un’intervista la stessa regista “dodici cantanti, otto attrici e sette attori della mia compagnia, quarantaquattro artiste e otto artisti del Coro”. Una produzione imponente, come si vede, per uno spettacolo di rara bellezza che, ne siamo sicuri, contribuirà alla conoscenza di quest’opera ancora così sconosciuta.