[rating=5] Se mai per avventura aveste mai pensato possibile e anzi realizzato ciò che spesso è puro desiderio di vecchi noiosi beceri come colui che leggete in questo momento, di (ri)crear cioè la magia e lo stupore e il pianto e l’affanno della prima volta in cui un capolavoro s’è mostrato a noi nella sua essenziale e perversa e innocente insieme nudità dell’essenza sua; se mai – dicevo – aveste avuto quel desiderio e l’aveste ritenuto per l’eternità inappagato, perché, per quanto indicibile e potente e attrattivo sia il rivivere un capolavoro, mai aveste pensato riproducibile lo stupore meravigliato e attonito della prima volta; se, in definitiva, condividete la per nulla invidiabile sorte di scoprirsi a volte scettici e cinici come me, sappiatelo, siete nel torto: è possibile (ri)vedere un’opera per l’ennesima volta e provare lo stesso sconvolgente imprinting, che ti scuote le ossa fin nel midollo, fino a marchiare indelebilmente perfino il tuo genoma, oltre all’anima, se pensi di possederne una. A me è accaduto ieri sera, l’opera era Bohème, il teatro era il mio bel San Carlo in versione estiva, lontano dall’afa ch’opprime Napoli implacabile in questi giorni. Il giovane talentuoso regista è Francesco Saponaro, le scene e i costumi di Lino Fiorito, le luci di Pasquale Mari: tenete a mente questi nomi, essi lavorano sempre in squadra e non saprei come divider fra loro il merito, ciò che so è che il prodotto finale nasconde sotto una stupefacente leggerezza cristallina e fragile una potenza d’elaborazione e di cura che intuisci notevole e puntigliosa e ponderosa: come quasi sempre succede, la mole di lavoro e d’analisi e di studio è direttamente proporzionale alla levità e trasparenza dell’opera finita. L’Orchestra del Teatro di San Carlo, diretta da un ottimo Stefano Ranzani collabora da par suo alla riuscita dell’impresa, con una interpretazione che taglia via ogni superfluo languore e che perfino accelera i tempi dell’indiavolato secondo quadro.
S’apre il sipario su una terrazza: è un solaio chiuso tra palazzi di città, se non sapessi trovarti a Parigi lo diresti un tipico lastrico napoletano, mio nonno ne aveva uno a casa sua dove ho giocato bambino, lo ricordo uguale in tanti lavori di Edoardo. Il lastrico ha il piano inclinato verso lo spettatore, offerta di dono gratuito e insieme distorsione e sospensione quasi onirica: elementi di sogno ci sono ovunque, in verità, e questa è una – non certamente l’unica – chiave di lettura, come vedremo. Due quinte chiudono la scena a destra e a sinistra: porte praticabili si aprono dall’una e dall’altra parte, da una entrerà tra poco Colline, dall’altra Schaunard con la sua piccola processione trionfale. Mimì no, non entrerà di qui: il fondo è infatti diviso a metà tra il cielo e una bassa costruzione dotata, in questo primo atto, di una scala esterna a chiocciola di ferro battuto: ecco, Mimì che abita sola soletta in una cameretta alta sui tetti e sui mille comignoli di Parigi, Mimì che s’appropria incognita del primo bacio dell’aprile facendo di necessità virtù, Mimì verrà per queste scale, come la luce di cui porta il nome – anche se tutti la chiamano Mimì senza saper perché – Mimì che noi sappiamo esser cara agli dei, scendendo da un imprecisato lassù di gran lunga più in alto d’ogni possibile immaginazione: Mimì ha la bella, espressiva voce con ombrose velature e la grande eleganza scenica di Erika Grimaldi; fa coppia con lei il Rodolfo di Matteo Lippi, generoso e musicale, dalla raffinata voce cristallina.
L’altra metà del fondo è occupato da uno scenario dipinto come se si fosse usato un pastello a cera: è una città, e un cielo azzurro – come solo in certe giornate invernali dall’aria tersa e sottile – s’allarga finalmente a coprire tutta la parte alta della scena. Parigi? Sì, certo, all’orizzonte laggiù, dove il cielo immagini tocchi la terra, un sentore d’Eiffel inconfondibile s’innalza prepotente e unico a giustificare Parigi. Tuttavia, come non pensare – io l’ho pensato – che se al posto di quell’aguzza icona avesse lo scenografo disegnato ambo le gobbe del Vesevo, nulla ci sarebbe stato di male. Perché, vedete, già da questa povera descrizione che maldestramente ho fatto della scena (che resterà sempre uguale e pur profondamente diversa, come vedremo, di quadro in quadro), una cosa è chiara: la fondamentale irrealtà della situazione, la soffitta dei bohémienne trasferita en plein air, le quinte e i fondali dipinti e scopertamente teatrali, i costumi degli attori d’improbabili color pastello, son tutti patenti segnali del nullo interesse che il regista ha per il realismo. Come diceva Edoardo nei panni del capocomico Campese de L’arte della commedia (lo cito qui e poi mai più, giuro), vere strade e piazze appartengono al cinematografo, agli spettatori del teatro può, deve bastare la parola del poeta, scene e fondali sono menzogna dichiarata, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema menzogna.
Nessuna (ri)costruzione della realtà, dunque: a partir di qui, s’aprono per chi il teatro lo fa, da una parte del palcoscenico, e per chi ne fruisce, da quest’altra parte della quarta parete, indicibili e inesplorati spazi d’ineguagliate metafore, di gioco e trastulleria infinita – e d’infinito piacere – sul filo d’una metateatralità che è come un fiume carsico ch’appare e scompare per risorgere più oltre, sempre uguale eppure sempre diverso. In questa pazziella eterna e poetica, unica stella polare non può che essere la musica di Puccini, vero Virgilio di questa risalita verso una desiderata ricomprensione dell’opera, lontano dal gravame e dai laccioli del libretto – il che, evidentemente, non autorizza qualsiasi cervelleria perpetrata da lavoranti senza scrupolo – e che diventa, ritorna ad essere, il vero passe-partout dell’anima. Il resto, semplicemente, non serve.
Così, al primo quadro che soffre d’agarofobia dovuta all’enormità dello spazio rispetto ai pochi attori in scena, si contrappone il secondo del Caffè Momus, che patisce invece l’horror vacui d’indicibile e ricercato affollamento: stessa è la scena, ma, giocata sull’alternanza del troppo vuoto-troppo pieno, ha l’ambizione giustificata d’apparir diversa, irriconoscibile nella sua scontata e patente sembianza di caciarosa ammuina. Il quadro è notoriamente complesso, giocando il Maestro un dei suoi balocchi preferiti, il restringersi, cioè, e il fulmineo dilatarsi della scena e viceversa, un gioco da cinemà nella sapiente alternanza dei campi lunghi e corti, gioia e dolore d’ogni regista. Anche in quest’occasione Saponaro sa come sottolineare le cose giuste, avendo come riferimento la musica più che il libretto: ho visto che anche gli spettatori meno avvertiti (ce n’erano molti, la sala era piena, buon segno, speriamo) riuscivano ad agevolmente seguire la scena e i personaggi nel gran bailamme della vigilia di Natale al Quartiere Latino. Il Coro, diretto da Marco Faelli, m’è sembrato in forma smagliante, ieri sera, nel seguir le ripide salite e discese musicali, e l’infernale meccanismo sonoro e scenico da orologio svizzero che richiede precisione teutonica, oltre che latina fantasia; così anche i ragazzi del Coro delle Voci Bianche, diretto da Stefania Rinaldi, che con grande e ammirevole professionalità rincorrono a seguire l’eterno Parpignol della tromba e cavallin. Una bella e brava Anna Maria Sarra interpreta una Musetta scenicamente verosimile e musicalmente in parte, senza le coquetterie che spesso accompagnano il personaggio, soprattutto oggi in cui si tende a farne una specie di bomba sexy, laddove invece è ancora una volta la musica a dover guidare le scelte interpretative.
La seconda parte comincia alla barriera d’Enfer bianca e grigia e nera serrata nella morsa del freddo e della neve dell’ora antelucana: riflettori vagano nell’aria fredda suggerendo pensieri da lager, inequivocabile segno che il tempo della gioia e della giovinezza sta per terminare, col finir della vita d’un di loro. Opera una cesura netta, il regista, tra la prima e la seconda parte: il tempo della gioia è terminato, la giovinezza sta per finire, il sognare l’avvenire cede il passo e arrivano già i ricordi, i rimpianti, i comeravamo, le malinconie di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato; anche questo, ovviamente, è tutto nella musica. ma non ne darei così scontata la realizzazione: pure le luci, vivide nei primi due quadri, si vanno affievolendo lentamente fino alla tenebra dell’ultimo quadro, come vedremo. È come se il sogno che si va rappresentando trasmutasse in incubo, dai colori pastello a quelli prima lividi e poi bui della notte eterna che s’approssima. Per ora si gioca ancora nel contrapporre il duetto Mimì-Rodolfo a quello Musetta-Marcello, un segno evidente d’ancor fresca vitalità: Marcello è un ottimo Alessandro Luongo dal timbro gradevole e potente squillo quando serve, e sa dare il giusto calore all’amico fraterno del protagonista. Ma già le due lunghe ciminiere che, sulla destra, innalzano lunghe colonne di fumo nero e mortale, sono sinistro presentimento di ciò che avverrà: la povertà lieta del primo quadro non può che precipitare verso la disperata miseria della fine ultima, e non c’è in questo alcuna intenzione rivendicativa e verghiana e verista, in Puccini come in Saponaro, semplicemente la constatazione di un fatto, di una cultura dello scarto che inevitabilmente produce guasti e malattie e fumi.
Puccini, si sa, aveva costruito l’ultimo quadro come calco del primo: dopo la stagion dei fiori gli amori sembrano finiti, benché sotto la cenere covi evidentemente ben più d’una favilla, i protagonisti tornano alla situazione iniziale, alla spensieratezza goliardica del sapersi arrangiare e arrabattare nella soffitta-solaio: così, dopo l’iniziale duetto tra Marcello e Rodolfo, come nel primo quadro arriva Colline e poi Schaunard, rispettivamente interpretati da Andrea Concetti e Biagio Pizzuti, ottimo basso comico il primo, di cui scopriamo con piacere il cimentarsi con successo in ruolo drammatico, sottolineato dagli applausi per la sua interpretazione di Vecchia zimarra, buona voce dalla buona dizione e timbro il secondo, stralunato Schaunard dalla battuta pronta. Ma nell’allegria ridanciana dei protagonisti c’è un che di forzato, di falso, in quella gioia depressa, in quei salti da funambolo triste, nel gioco en travesti, nel duello rusticano; Saponaro sceglie di scoprire il gioco con decisione fin dall’inizio: la metà destra del palco, la parte finora occupata dal fondo cielo, è completamente al buio, e così tutta la quinta di destra; a sinistra le luci del lastrico e della costruzione sul fondo sono abbassate e un enorme velario nero occupa tre quarti della scena, a mo’ di sipario che nasconde in parte la scena e che ne accentua il carattere metatreatrale. Le tenebre sono scese sulla terra e i giovani incoscienti non se ne sono accorti, o, almeno, non ne danno segno esterno; quando la situazione precipita con l’entrata in scena di Musetta e Mimì, perfino le fioche luci che rimanevano sullo sfondo si spengono e il buio completo è intorno ai protagonisti. Mimì, tornata al nido cinguetta e canta l’amor suo grande come il mare profondo, e mentre canta le mezze luci dei palchi s’accendono: si riappropria del suo nome vero, Lucia, per compiere l’ultimo miracolo definitivamente infrangendo la quarta parete, per donare anche a noi, al mondo reale – posto che così sia – la luce che fra poco regalerà anche al mondo intero, con la sua morte: perché è così che il regista decide di chiudere la rappresentazione: dietro il buio velario s’accendono, alla morte di Mimì, fioche luci che poi si rivelano appartenere a persone di popolo che prendono il corpo della protagonista e lo portano in processione – in dono – verso la città che nelle livide luci dell’alba ora appare di nuovo sullo sfondo, vincendo le tenebre della notte. Cala la tela.
Quella povera Mimi’ appena morta portata via a spalle fa un poco pena (per il regista).