[rating=2] Caruccio, è caruccio. E ruffianello pure. E nulla più. L’elisir d’amore riveduto e corretto in full immersion cucinielliana secondo Riccardo Canessa che ne firma la regia, approdato dopo tanto peregrinar (è in giro dal 2003) qui al San Carlo, nella Napoli che di quei presepi fu ed è tuttora patria, lascia in bocca – negl’occhi e nell’orecchie – un sapor non so se di posticcio o di fiabesco, che malamente stride con l’essenza intima dell’opera, inestimabile capolavoro di rarissima eleganza e d’importanza capitale nella storia della lirica e della musica in generale. Certo, son consapevole che questa versione presepiale abbia ricevuto quasi unanimi consensi fin dalla sua prima comparsa: non posso nascondere tuttavia la delusione per questo spettacolo che ignora del tutto le suggestioni della musica donizettiana per ridursi a dolciastra favoletta nel vissero felici e contenti del facile e scontato finale.
Così la narrazione musicale, che ci fa toccar con mano, non solo l’evoluzione dei personaggi da piatte figurine d’opera buffa a veri personaggi a tutto tondo, ma soprattutto il passaggio dall’ormai vetusto rococò settecentesco delle crinoline e dei gorgheggi alla potente novità del vero manzoniano e del primo sincero romanticismo – tutto questo, che indicibilmente avviene sotto i nostri occhi di avvertiti spettatori ad ogni rappresentazione dell’Elisir dal 1832 ad oggi, miracolo d’equilibrio e calibrate sfumature e controllati toni – tutto questo, dicevo, viene incredibilmente rovinato da una scelta registica quanto meno superficiale, più d’apparenza che sostanza, più artificio e giochettino che messa in scena teatrale, più fatuo gioco di società e strizzatura d’occhio che guida alla comprensione dell’opera e dei suoi significati. E se cerchi di scordartene, di quel fondale di tela dipinta col mare in lontananza su cui s’affaccia la luna (rossa naturalmente), di quelle case dai finti archi romani in rovina di sughero e cartapesta, il regista è purtuttavia sempre pronto a ricordartene l’omnia astrusità, come avviene ad esempio nelle inconsulte movenze del coro e dei ballerini nel finale della prima parte, che non sai se sia più suggestion di tarantella(!) o imitazione di movimento d’automa meccanico(!!).
I pochi che mi leggono sanno quanto chi scrive molto ami la follia d’un’audace regia, l’invenzione feconda quanto inusitata: purché ciò aiuti la miglior comprensione dell’opera (spesso scritta più di cent’anni fa); quando però la legittima e addirittura doverosa creatività registica contraddica o neghi l’idea di fondo dell’opera, il gioco rischia di diventar fine a se stesso, divertente, carino, ruffianino… e basta. E ci vien voglia, come Nennillo Cupiello alla fatidica domanda “Te piace ‘o presepe?” di risponder testardamente e provocatoriamente no, e per gli stessi motivi del personaggio di Eduardo: non ci piace il presepe se esso è solo realtà posticcia, che nega la realtà del vero, che diventa salottiero e vano passatempo.
Sul piano musicale le cose, purtroppo, non vanno molto meglio. Ho trovato la direzione musicale di Giuseppe Finzi un po’ – come dire – originale, sia nella conduzione dell’orchestra sia nella concertazione delle voci: l’orchestra dell’Elisir è un personaggio a sé, un po’ come il coro greco è la voce dell’autore che, con accorata ironia ed affetto guarda lo svolgersi della vicenda sottolineandone i vari aspetti coi propri pensieri, i propri commenti, i propri dolori e le proprie gioie, per chi sappia leggerne ed ascoltarne il riflesso emotivo. Orbene, io non ho percepito alcun commento dell’autore, ieri sera in teatro, solo suoni più o meno aggraziati e intonati… e che dire del coro, il grande Coro del San Carlo che nel recente passato tanta prova di sé aveva dato? Anche il coro è un personaggio, nell’Elisir d’amore: il paese, col suo duro lavoro, la sua ignoranza e credulità, i suoi pettegolezzi, i suoi momenti di festa; il paese che, in questa supposta terra dei baschi, parla con la cantilena bergamasca dei paesi della bassa – anche questo a sottolinearne il robusto verismo lombardo. Ebbene il coro – dicono alcuni perché il suo Maestro ha già la testa in un paese dei baschi… – ha, qua e là, soprattutto nella concertazione con le voci soliste, non perfettamente amalgamato i toni e le sfumature e i tempi, con un effetto finale percepito (almeno da me) leggermente algido e distaccato.
Il cast: il Dulcamara di Nicola Alaimo è indubbiamente ben centrato, e benché si tratti di personaggio notoriamente straripante acquista anch’egli complessità e spessore man mano che la vicenda si dipana: il basso-baritono siciliano è riuscito a cogliere l’evoluzione del personaggio e a servirla con ottima tecnica e buona ricchezza stilistica. Belcore è invece interpretato da Mario Cassi la cui voce risulta poco udibile nei toni gravi mentre trova grande facilità nel registro acuto; drammaticamente interpreta un personaggio (un soldato non si sa perché travestito da pazzariello!) che, al contrario degli altri, rimane identico dal principio alla fine, nella sua monotematicità da miles gloriosus. I due personaggi principali sono interpretati da due giovani cantanti, Grazia Doronzio e Leonardo Cortellazzi: la cantante lucana ha interpretato una Adina di carattere che ben sa rendere il passaggio dalla civettuola e superficiale ragazza conscia della superiorità del denaro e della cultura alla donna che sa infine scoprire l’amore dentro di sé; musicalmente la freschezza della voce e la sua chiarezza ha certamente giovato alla resa del personaggio. Così anche per il tenore mantovano, Nemorino preciso musicalmente e dotato di chiarissima dizione ha cantato con voce sempre ferma, poco svenevole pur nella sua semplicità, ottenendo anche un bell’effetto con la furtiva lacrima, ottenuto con la mezzavoce.