Si mette in scena al Teatro Petruzzelli di Bari l’opera per certi versi – alcuni ancora del tutto da scoprire – forse più intrigante di Gaetano Donizetti, il Don Pasquale, in un allestimento che vede firmare la regia da uno dei più interessanti attori e registi del nostro tempo, Antonio Albanese. Molti dunque i motivi d’interesse, a partire dall’opera stessa e da cosa avesse in mente Gaetano Donizetti quando cominciò a scriverla, dopo aver raggiunto la massima perfezione possibile nell’opera seria con quel notturno capolavoro che è Lucia di Lammermoor, scritta per il San Carlo, negli anni tempestosi napoletani, e dopo aver del tutto sapientemente – e in fondo silenziosamente – rivoluzionato l’opera buffa d’antichissima e nobile origine con l’inarrivabile verve d’Elisir d’amore.
Certo nessuno può azzardarsi consapevolmente a rispondere ad una tal domanda, ma alcuni studi – come quello di Gerardo Guccini – ipotizzano, non senza ragione, che il musicista si proponesse, col Don Pasquale, vincere l’enorme sfida di riscatto del passato dell’opera buffa: soffiava allora l’impetuoso vento nuovo del romanticismo che spazzava via ogni possibilità di rappresentazione del glorioso genere dei Cimarosa e dei Paisiello se non nei teatri minori di provincia; era nato, anzi, accanto al melodramma “serio”, grondante lacrime e sangue, un nuovo genere, la cosiddetta opera semiseria, più confacente all’ormai imperante sentir comune, che offriva momenti lirici di grande pathos in un quadro d’insieme sentimentale a lieto fine: Donizetti stesso aveva contribuito al successo del nuovo genere con l’assoluto capolavoro dell’Elisir d’amore.
Ora però, scomparso Bellini, rivale d’una vita, il compositore bergamasco vide forse la possibilità di legare per sempre il suo nome non tanto, si badi, ad una impossibile reinassance d’un genere di cui già, probabilmente, Rossini sembrava estremo rianimatore e interprete, quanto piuttosto ad una conciliazione tra apparentemente opposti e divergenti segni e sentimenti: (ri)prese dunque il vecchio e ben conosciuto meccanismo di tipica opera buffa del Ser Marcantonio di Anelli e Pavesi, sfrondò personaggi e situazioni, infuse il soffio dell’anima e della vita reale a quei personaggi prima solo maschere simboli e archetipi, condendo il tutto con musica elegante come non mai e il gioco è fatto: il capolavoro è servito.
Intendiamoci, però: in tal modo, se è vero che Don Pasquale resta l’unica opera buffa ancora in repertorio dal 1817 della Cenerentola al 1893 dell’ultima trasfigurata incarnazione di tal genere nel Falstaff, appare ovvio tuttavia che quest’opera, nata cogl’intenti che abbiamo detto e nella descritta temperie culturale, non era – non poteva esser più – Cimarosa e nemmeno Rossini: altra cosa, diversa e men grossolana sensibilità del buffo, dissimile sguardo sulle umane vicende, era quel di Donizetti (e la storia ci dice appartener quella mano proprio a lui, più che al Ruffini, che infatti ne disconobbe ogni paternità).
Tanto da far parlare d’umorismo, più che di comicità, di sentimento del contrario piuttosto che d’avvertimento del contrario, direbbe Pirandello a questo punto, cosicché l’emblematico schiaffo di Norina riassumendo ed esplicitando il cambio dell’epoche e il fluire del tempo, capovolge il punto di vista, non provocando più risata ma riflessione nello spettatore che, oggi come ieri, siede in platea. Opera facile da ammirare ma sovente difficile da amare, la piccola commedia spigolosa di Donizetti diventa così, nelle mani sapienti d’Antonio Albanese, obliquamente capace di metterci a disagio, perché nonostante tutta la brillantezza e la leggerezza sorridente della musica, la rappresentazione delle follie amorose dell’età e delle certezze sconsiderate della giovinezza finisce per connotarsi d’una qualità sardonica che confina col cinismo e la crudeltà e il mutevole equilibrio di simpatie finisce col correre su un crinale incerto, in cui la precarietà può, se si vuole e si può, trasformarsi in fonte d’infinita gamma di sfumature.
L’allestimento, creato per Teatro Filarmonico di Verona nel 2013, con le belle scene create da Leila Fteita e i costumi di Carola Fenocchio, ben riflette dunque questo trascorrer del tempo, questa diversa e più moderna sensibilità del Don Pasquale, coglie un ulteriore e cruciale momento di metamorfosi del sentir comune, come è quello del ritorno ideale dal mondo urbanizzato a quello contadino – come vediamo avvenire in questo nostro presente – rende più visibile, vivibile e intellegibile la musica a noi contemporanei: il che, guarda il caso, è proprio principale, se non unico, compito della regia.
Ed ecco l’ambientazione “enologica”, don Pasquale produttore di vini, una azienda alimentare piuttosto che un remoto palazzo della Roma papalina, il giocattolo alla fine non si guasta, anzi, argutamente, spiritosamente, intelligentemente, le corde comiche e malinconiche d’Albanese – rimanendo tuttavia, nonostante i secoli si siano addensati, fedele ad alcuni capisaldi del teatro musicale romantico – trasmutano agilmente il vetusto marchingegno in gingillino dal fragile e delicato splendore che vive costantemente in precario equilibrio tra farsa e tragedia, varietà e pochade, dramma borghese e commedia dell’arte: una tipica, moderna, piacevolissima commedia all’italiana.
O, come direbbe l’Autore, alla “borghese moderna”: nel libretto non c’è alcuna indicazione riguardante l’epoca in cui si svolgono i fatti, si afferma solo, perentoriamente, che “l’azione si svolge in Roma”; questo ha autorizzato, fin dalla prima rappresentazione parigina, ad una ambientazione tra parrucconi e crinoline, nel bel mezzo del secolo dei lumi, con esplicito riferimento a quella commedia buffa che aveva imperato cent’anni prima. Sappiamo tuttavia, da una lettera di Ruffini, che Donizetti voleva che la sera di quel 3 gennaio di quasi centottanta anni fa gli interpreti vestissero alla maniera “borghese moderna”, gli artisti invece si si ribellavano a questa impostazione, Ruffini era d’accordo con loro e promise “parrucconi e abitoni di velluto”, e Donizetti, pur brontolando perentorio che “la musica non ammette questo”, dovette cedere.
Dunque, la migliore rappresentazione del Don Pasquale, stando all’autore, è quella con abiti “moderni”, perché “moderna” è la vicenda, “moderna”, soprattutto, la musica, il ritmo, in particolare, il tempo ternario – il tempo del valzer – che spunta ovunque in quest’opera, del tutto ignorato dal Bellini contemporaneo e così sintomatico, invece, di ciò che stava avvenendo in Europa, preveggente al punto da presagir l’operetta che tra qualche anno avrebbe deliziato il pubblico della bella époque.
E non è certo fuori luogo l’indugio del regista in pensosa riflessione sulla vecchiaia e sulle sue convenienze e inconvenienze, alla ricerca d’un tempo ritrovato e mai perduto, quasi a voler metter sulla scena un ideale apologo sul declinare degli anni, un de Senectude altrimenti faceto, adatto a questi tempi del rimescolamento dell’alto e del basso, fluidità delle idee, profondità che diventa vertiginosa leggerezza e viceversa: sembra, allora, tutto il mondo di Pasquale congelato in un tempo eternamente senile e un po’ stantio, a cominciar dallo stuolo d’una servitù – la sua gente – molto caratterizzata, per finire con vignaiole e vignaioli molto colorati – eccezionale, puntuale e perfettamente “in parte”, come sempre, il Coro guidato da Fabrizio Cassi – che sembra voler prender sul serio le parti dell’antico Coro evitando l’eccessivo, il ridondante, pur nella risata della beffa crudele: possiamo ben dire, allora, che questa regia ha brillantemente superato la prova, anche avvalendosi di un ottimo cast.
Carlo Lepore fa del protagonista un personaggio bello e comprensivo, ed è difficile non rimare colpiti dai sorrisi di puro piacere al pensiero di sposarsi, anche alla sua età, profondamente toccante nelle sue espressioni di affetto per Norina e il singhiozzo nella sua voce quando lei alla fine lo colpisce ti spezza il cuore, sinceramente affranto e davvero straziante, mentre Veronica Granatiero tratta la coloratura di Norina con grande brillantezza e sicurezza, in modo straordinariamente implacabile: acuto penetrantissimo e chiarissimo, sapientemente compensa il volume non eccessivo della voce con la travolgente vivacità.
Malatesta è il malizioso rispettoso, il motore della storia, come il Figaro rossiniano, ma che ha perso in popolanità ciò che acquista in garbo e cordialità: Giorgio Caoduro sa con sapienza interpretarlo con morbidezza, stile e scioltezza, più che virtuosismo non richiesto, simile discordo vale per l’Ernesto di Levy Sekgapane, dal tono sempre glorioso, coloratura e trillo estremamente precisi, ma sempre messi al servizio del carattere e della verità drammatica piuttosto che dell’esibizione fine a se stessa. Renato Palumbo, alla guida sicura dell’Orchestra, è da anni uno dei punti di riferimento nella direzione del teatro d’opera: gusto e rigore, insieme ad un ritmo ben sostenuto, sono le caratteristiche d’una interpretazione della partitura che ha rasentato la perfezione; il malinconico assolo di tromba nel preludio del secondo atto – “recitato” sul palcoscenico – ci restituisce forse l’esatta dimensione di questo allestimento, pienezza e gioia della vita pur quando, inevitabilmente, la giovinezza passa e più non torna.