[rating=4] Una Cavalleria Rusticana turgida e carnosa quella tornata in scena per la fortunata regia del 2008 di Mario Pontiggia al Teatro dell’Opera di Firenze fino al 2 novembre.
L’opera, per questa occasione, abbandona l’accompagnamento dei due balletti di Luciano Cannito (Vespri) e Vladimir Vasiliev (Paganini) per la coreografia tutta contemporanea di Francesco Nappa La luce nel tempo. Il balletto, distinto in molteplici quadri, prende forma dagli opposti Luce e Ombra sulle note di Haydn, modella corpi aformi in scene asettiche, tagliate sapientemente dalle luci di Gianni Paolo Mirenda. 40 minuti forse un po’ ripetitivi, spiragli di consapevolezza dalla caverna di platonica memoria.
Una luce plasmata, ricercata, bramata, potremmo dire, una conoscenza prorompente che si fa largo dai cupi timori dell’animo, lega con un filo sottile le due distinte opere, portandoci dalle armonie di Haydn alla forza passionale di Mascagni.
L’atto unico di apre sullo spaccato di una chiesa barocca, che delimita la piazza del paese sul lato sinistro della scena, “punto di riferimento della vita sociale del paese, dei suoi pettegolezzi, della sua omertà”, centro nevralgico dell’azione scena con il suo duplice volto, da una parte accogliente “per inneggiare al Signore”, dall’altro di completo rifiuto verso la “disonorata” Santuzza.
Mascagni riporta in vita la novella di Verga, una tranche de vie nuda e cruda, la cui potenza espressiva si fa straripante en plen air, perché, citando il Maestro livornese, “Una forte sensualità ed un temperamento passionale arroventano l’opera, che dall’inizio alla fine avvince ed emoziona”. Ed il miracolo si compie nuovamente, questa volta nella cornice del nuovo e fiammante Teatro dell’Opera di Firenze, certo privo di quel buon odore di storia e passato tanto cara a noi nostalgici, ma la cui acustica risulta senz’altro perfetta nel dare equilibrio e risalto a voci e orchestra.
Un buon cast quello dell’inaugurazione, dove spicca l’appassionata immediatezza del Turiddu di Sergio Escobar, vocalmente sfarzoso, forse ancora per certi aspetti da limare, ma di cui senz’altro sentiremo nuovamente parlare; la Santuzza di Luciana D’Intino mostra un timbro introspettivamente scavato, dalle sonorità profonde e fosche; un po’ graffiante l’Alfio di Lucio Gallo; superficialmente estroversa la Lola di Martina Belli; intima e delicata la Mamma Lucia di Cristina Melis.
La direzione di Giampaolo Bisanti mostra un passo narrativo solenne, che fa luce su un’attesa più lancinante dell’esplosione delle passioni e dà il meglio di sé nell’intermezzo sui generis di pura sinfonia. Peccato per l’annuncio en coulisse del dramma finale, decisamente poco partecipato.