Home Lirica Un cappello di paglia di Firenze giovane e antico

Un cappello di paglia di Firenze giovane e antico

[rating=3] Se mai qualcuno avesse nutrito dubbi sul carattere che l’autore intendesse dare al suo Cappello di paglia di Firenze – d’ironico e disinvolto e sereno vaudeville – l’incertezza sarebbe fugata non appena messo piede nella luminosa sala del risorto Petruzzelli: il pesante tendaggio azzurro che sostituisce l’ordinario sipario è incorniciato da una regolare fila di lampadine gialle, ben più che un richiamo ai teatri parigini fin de siècle e ad una bella époque immaginata e (ri)vissuta e amata: le lampadine s’accenderanno di luce più intensa nei momenti topici della vicenda. L’overture viene eseguita a sipario chiuso, e poi parte il racconto scoppiettante di questa giornata di ordinaria follia di Fadinard – tra lacché su pattini a rotelle, modiste ballerine e violinisti superstar – à la recherche del perduto cappello d’una madame d’esigua moralità: un vaudeville, appunto, dove a brani di prosa s’alternavano canzoni su melodie in voga; ed è appunto questa l’operazione che tenta il giovane Rota con la complicità della madre, cosa che se rende gradevolissimo il risultato, immagino debba essere stato divertentissimo scrivere.

La regista Elena Barbalich sposta l’azione di 70 anni circa, dalla metà del secolo romantico – epoca in cui Labiche scrisse ed ambientò il suo Chapeau de pialle d’Italie, da cui è tratta l’opera – agli anni venti turbinosi e folli del secol breve: è una scelta, questa di cambiar l’epoca d’azione, molto frequentata – come si sa – nei teatri d’opera al tempo recente: risponde il più delle volte a moda, altre ad esigenze di diverso tipo. Nel caso nostro, essa m’è parsa più da interpretare come urgenza estetica e di gusto e di costume, dato che nessun serio aggancio alla storia reale degli uomini presenta l’opera di Rota, se non un labile cenno di critica sociale vestita più di sorridente e bonaria ironia che non d’acidità graffiante e corrosiva: aver scelto quest’epoca così drammaticamente ricca di contrasti sociali – il primo dopoguerra che così ben poco mostrò d’aver appreso dalla severa lezione della Grande Guerra, incubando i grandi mostri del secolo – non implica nulla se non sul piano puramente estetico.

Cappello di paglia di Firenze

E dunque i costumi bellissimi e le scene geniali di Tommaso Lagattola sottolineano e arricchiscono l’eleganza della musica, così disinvoltamente ricercata e in bilico tra la consapevolezza d’un impossibile ritorno al passato e l’affettuosità dello sguardo che (ri)crea un presente ricco e sereno: richiamo – forse – alla leggenda che vuole il giovane Rota ispirato dal film che René Clair girò nel 1928, tratto dalla stessa pièce di Labiche. Rimandi, sottili allusioni, espliciti rinvii che viaggiano sul filo di una musica che è storia giocosa del melodramma, che cita senza copiare, che ridesta memorie, che rende riconoscibili e familiari al pubblico e al critico incisi musicali stili orchestrazioni melodie.

Alcune scene colpiscono per la potenza visiva oltre che musicale: è come se regista scenografo coreografo (Danilo Rubeca) e autore delle luci (Michele Vittoriano) si fossero provati – e possiamo dire in gran parte riuscita l’impresa – a (ri)fondare quest’opera, rendendola – oso dire – quanto più cinematografica possibile: e questo, si badi, non attraverso una mera e formale proposta di brani filmici (s’è visto anche questo, e recentemente), ma invece andando alla radice del fare cinema, che è rendere visibile la musica e ascoltabile (mi si passi il termine) l’immagine. Si guardi per esempio alla scena delle modiste, o a quella del temporale: nulla più di realismo c’è nella musica che incalza col suo ritmo e che si rende visibile nel gioco delle luci, dei colori e del gesto; nulla più di realismo c’è nelle immagini che evolvono in astratti giochi di luce e colore che s’inseguono e si perdono. Così, la più astratta delle arti prende la sua rivincita, senza infierire, sulle arti visive, rendendole, per quanto possibile, puro pensiero e concetto. Ho creduto che questo renda in qualche modo commosso omaggio al musicista che dedicò soffertamente la propria arte e la propria vita al cinema; ma anche alla lirica che del cinema è la più diretta antesignana. E di questo certamente era consapevole il maestro Rota.

Il cast è giovane: e questo è già di per sé una buona notizia. Unico “veterano” Domenico Colaianni che restituisce un Nonancourt forse più vicino esteticamente ad un clochard cittadino chapliniano che ad un austero contadino francese, ma certamente efficace e trascinante. Tutti gli altri, da un Giulio Pelligra negli ansiosi panni di Fadinard a Damiana Mizzi in quelli appassionati e timidi di Elena, da un ottimo Pietro Bianco che interpreta un ruvido e oscuro Beaupertuis alla brava Francesca Ascioti che rende credibile la baronessa di Champigny, sono giovani pressoché tutti al loro esordio in una parte consistente in un vero e grande teatro d’opera: qualche comprensibile incertezza e qualche emozione che tradisce il gesto e la voce non cancella l’entusiasmo e la convinzione di tutti. Semmai, forse un più attento controllo registico avrebbe potuto evitare qualche caduta di stile che, certo, ha potuto eventualmente strappare qualche sorriso in più, ma che risulta fondamentalmente estraneo allo spirito di Rota, estremamente, invece, controllato ed elegante. L’ultima parola non può che essere per il coro, guidato con la consueta serietà e bravura da Franco Sebastiani, e per l’orchestra, diretta questa volta dal talentuso Giuseppe La Malfa: il giovane organico del teatro cresce, e bene, di opera in opera.

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