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Bagliori quaresimali di Mosè in Egitto

Al Teatro san Carlo di Napoli il Mosè in Egitto di Gioachino Rossini, per la regia di David Pountney e la direzione di Maurizio Agostini

Strana sorte, quella del Mosè in Egitto, in questi giorni in scena qui al Teatro San Carlo di Napoli, ma comune, in verità, ad altre opere che fanno la storia del teatro in musica: scritta per la Quaresima dell’anno di grazia 1818 per il Real Teatro San Carlo – a Rossini venne espressamente chiesto un melodramma d’argomento biblico, per ripristinare una tradizione borbonica istituita nel 1786 e poi decaduta nel periodo rivoluzionario – su libretto di Andrea Leone Tottola, andò in scena il 5 marzo di quell’anno. Di questa prima versione non abbiamo più la partitura, ma il libretto sì: si rifà, come molto spesso nella storia del melodramma, non direttamente al racconto biblico, ma ad una tragedia di Francesco Ringhieri, l’Osiride e, come recenti studi hanno dimostrato, a Le passage de la Mer Rouge, un mélodrame francese di Augustin Hapdé con musiche di scena di Henry Darondeau, presentato a Parigi il 15 novembre del 1817.

Purtroppo, il brevissimo atto finale, con la scena del passaggio del Mar Rosso, si rivelò un disastro, nonostante il pubblico avesse apprezzato la bella musica del compositore che, pervicacemente ma conscio delle proprie capacità e – anche – dei propri errori, ripresentò ai napoletani l’opera l’anno seguente, con due cambiamenti: il taglio dell’aria di Amaltea del secondo atto e la revisione completa del terzo, che, ampliato e corretto, comprendeva ora la preghiera Dal tuo stellato soglio, destinata a diventare una delle composizioni più popolari di Rossini. L’opera divenne ben presto molto popolare in tutti i teatri d’Europa, sicché sembrò naturale a Rossini, ormai star internazionale, nove anni dopo, adattare quel semplice oratorio quaresimale al gusto francese del grand opéra: Moïse et Pharaon, ou Le Passage de la mer Rouge fu messo in scena nel 1828 a Parigi con enorme successo.

L’originaria partitura risulta dilatata – sono quattro atti invece degli originali tre – con l’inserimento di danze, scene di massa, gli effetti speciali si moltiplicano, aggiungendo anche, con buona pace della fedeltà biblica, episodi come il roveto ardente o la consegna delle tavole dei Comandamenti: in ogni caso il successo fu tale che ben presto la nuova opera soppiantò la vecchia, e d’altra parte, come spesso succede nei rifacimenti d’opera, da Fidelio in poi, la nuova partitura fu giudicata migliore della prima, perché di questa ne comprende le parti più famose e belle, aggiungendo semmai qualcosa. La prima versione continuò tuttavia ad essere rappresentata nel corso di tutto l’Ottovento al Théâtre des Italiens, prima di cadere nel dimenticatoio, e lì la vide, fra i molti altri, pure Balzac, che in Massimilla Doni utilizza l’opera per restituirci l’immedesimazione della protagonista nella musica, così come farà, qualche anno più tardi, Flaubert per Emma Bovary con Lucia di Lammermoor o, ancora, in tempi a noi più vicini – segno di come i legami tra musica e letteratura non finiscano col secolo romantico – Thomas Mann per l’esangue Klöterjahn con Tristan und Isolde.

Ma in definitiva la primitiva versione del Mosè fu accantonata, materia per filologi, più che per il grande pubblico, anche nel gran Teatro che ne fu la culla si preferì, già a partire dal 1829, rappresentare il Moïse, pur se tradotto in italiano, anzi utilizzando per la versione italiana parti dell’originario Mosè, fino ad una trentina d’anni fa, in cui si “riscoprì” la partitura originale come dotata di caratteristiche autonome che la fanno risultare del tutto diversa – non dirò migliore, perché non si fanno classifiche in questo campo – mantenendo i caratteri di vero oratorio quaresimale rispetto al ridondante e spettacolare Moïse.

La riproposta del Mosè nella versione originaria, da parte del Teatro San Carlo – era già stato fatto nel 1993, primo segno della renaissance di cui si diceva – non obbedisce, dunque, a mera operazione di filologia culturale, per quanto interessante, ripescaggio dalle nebbie del passato di un titolo di cui la storia ha decretato la fine, ma, invece, di riproposizione, alla nostra contemporaneità, di un’opera che, nell’essenziale forma d’oratorio, ancora ha molto da dire all’uomo che abita la nostra quotidianità e che per ventura si trovasse a sedere in platea questi giorni, a patto di metterlo in scena per quel che è, senza travisamenti e false aspettative, dando risalto al miracoloso equilibrio che ancora conserva, rispetto alla successiva versione, nel riflesso, cioè, della storia degli uomini comuni in quella dei popoli e viceversa, nelle perfette soluzioni drammaturgiche – le tenebre iniziali, relegate nel secondo atto nel Moïse, perdendo così gran parte dell’efficacia che dà l’essere scaraventati in medias res, come avviene nel Mosè, oppure il suo pendant finale, la famosa scena de Dal tuo stellato soglio, in cui il mare non si apre più, nel Moïse, come classicamente siamo abituati a immaginare, ma diventa solido per permettere agli Ebrei di attraversarlo, o, ancora, nella morte di Osiride, che nella nuova opera non viene più colpito da un fulmine di Dio, ma muore, più ordinariamente, annegato nel mar Rosso alla fine – che lo costellano, nella coesistenza non scontata e non pacifica, all’interno dell’opera, tra opposte, inconciliabili e inconciliate esigenze e urgenze d’invenzione e tecnica, dalla granitica intensità biblica di Mosè alla pura coloritura degli amanti, con una qualità altissima che non presenta mai alcuna soluzione di continuità.

L’allestimento di David Pountney e dello scenografo Raimund Bauer è splendidamente concepito come correlato visivo, austero e pervicacemente, delittuosamente, semplicemente astratto, degli elementi di base della trama: perché quando le tenebre iniziali – la sala è realmente immersa nelle tenebre più fitte per tutto il tempo necessario al pentimento di Faraone – si diradano, grazie allo splendore del grande occhio di Dio che torna a illuminare il mondo – il disco solare di Aton, lo sguardo di Jahvè, a seconda dei contrapposti punti di vista – ci vien rivelato un mondo essenzialmente diviso in due blocchi, espressivamente e astrattamente evocati da due enormi lastroni di pietra i cui colori – dal blu al verde per gli israeliti, dal rosso all’arancio per gli egizi – si rifrangono sulle vesti – molto belli i costumi atemporali disegnati da Marie-Jeanne Lecca e sottolineati dalle luci di Fabrice Kebour – e sui volti dei personaggi e dei coristi.

I colori e le forme, il contrasto che si genera tra loro, rappresentano, secondo il regista il contrasto tra il bene e il male, tra politica e religione… ma in quest’opera di forti contrapposizioni le due astratte campiture di colore potrebbero ben rappresentare una qualsiasi delle potenti e perduranti antitesi presenti nell’opera, tra eros (dei giovani amanti) e thánatos (degli adulti portatori di morte), tra maschi (intenti all’arte della guerra) e femmine (che si adoperano per la pace), tra cielo e terra, yin e yang, luce e tenebra; l’ispirazione alle immagini di Rothko è esplicita e comprensibile, quando si tenga conto che questa scena, così drammaticamente e sostanzialmente immobile, pur nella frequente rotazione dei piani, che rinvia facilmente a chiusure e aperture, a cieli sconfinati o a zone coperte e invisibili agli uomini e a Dio, come nella scena della caverna, altro non sia, in definitiva, come nell’arte del pittore ebreo – “pictures are dramas, the shapes are perfomers” – che un’impostazione legata al modo di pensare talmudico, in cui l’opposizione, la tensione, la divergenza di opinioni, è considerata ricchezza, non problema da superare in una sintesi finale come nella nostra cultura classica.

A fronte della sostanziale immobilità dei piani della scena, Pountney muove invece le masse in modo scenografico, fino a che i personaggi diventino scena essi stessi, senza temer il rischio del ridicolo, perennemente in agguato, in questi casi, dietro l’angolo: i personaggi si muovono guidati dalla musica, in una “coreografia senza coreografo”, sottolineando il movimento l’emozione e la libertà, l’immobilità la razionalità e l’autorità, fino a che i colori, rigidamente stabiliti all’inizio, gradualmente fluiscono l’uno verso l’altro, l’uno dentro l’altro, confondendo gli stereotipi, sconfiggendo paure e luoghi comuni, vincendoli con la potenza e la forza della storia degli uomini semplici.

Dunque, una regia che sa ben leggere partitura e libretto e che riesce a sottolineare, per questo, i punti di forza dell’azione drammatica. Così è per la grande scena iniziale delle tenebre, cui si è fatto cenno, che diventa occasione di reale e condivisa partecipazione del pubblico in sala a quanto sta accadendo sul palco, costruita con l’assoluta semplicità che contraddistingue le sapienti regie. Così, per la bella scena del secondo atto, l’aria d’Amaltea La pace mia smarrita, presa da Ciro in Babilonia, tagliata dallo stesso Rossini nella versione del 1819 – forse per una questione d’interpreti – qui restituita al meglio con il coro in assorta penombra, che vive della sola luce di tremolanti lucerne, come nella veglia delle vergini, perfettamente evocando l’incertezza dell’alba che verrà, colorandosi d’improvvisa malinconia rossiniana, quella che spesso ti coglie nel bel mezzo della più sfrenata gioia; o come per l’ultima scena della preghiera dello Stellato soglio, resa anche qui nel pieno rispetto di un Rossini semplice ed efficace, che, come ben coglieva Stendhal, sembrava aver intuito la scienza più che averla imparata.

Si lascino proiezioni ed effetti speciali a soccorrere la penuria d’idee, a chi, preso da ossessivo horror vacui, perseguita il trovarobe perché la scena si riempia d’inutile ciarpame decorativo e vano: solo, forse, a demerito di questa regia così accorta, qualche ingenuità – si veda l’ultima scena in cui, dopo la distruzione dell’esercito egizio, sullo squarcio orchestrale della partitura costruisce un invito alla pace caratterizzato da un irenismo un po’ vacuo e non particolarmente efficace – e, più in generale, un eccesso di prudenza: si parla, in fondo, di qualcuno che negli anni settanta, con il WNO, costruiva regie scorrette e innovative di cui si parlava ovunque in tutto il mondo e che tanto hanno contribuito a svegliare e svecchiare l’ambiente: il passar degli anni, probabilmente, porta molto in saggezza, esperienza, cultura, ma ci fa perdere purtroppo, altrettanto in coraggio e impazienza.

Ottimi gli interpreti, a cominciare, alla guida di una sempre più puntuale Orchestra del San Carlo, dal giovane maestro Maurizio Agostini, che sa trovare i tempi giusti, grazie alla manifesta competenza della partitura, e che riesce sempre a tradurre in chiarezza del gesto, sonorità pulite e buona intesa tra orchestra, Coro – apparso in ottima forma – e interpreti, a cominciare dal Faraone di Alex Esposito, in cui oltre al fraseggio autorevole e incisivo, alla presenza scenica molto convincente, risulta vieppiù impressionante la resa vocale, grazie al gradevole e pieno timbro scuro, doti che permettono al basso-baritono bergamasco la resa di un uomo di potere nevrotico e protervo, di grande effetto.

Così pure Carmela Remigio, di cui ben conosciamo le doti, a cominciare dalla dizione chiara corredata di un perfetto fraseggio appassionato e passionale, carico di accenti efficacemente mutevoli, sempre pienamente credibile e sempre perfettamente espressiva, attenta, sicura; Giorgio Giuseppini è sempre, come detto altre volte, garanzia sicura di grande professionalità e anche stavolta risulta assolutamente convincente nei panni d’un personaggio come Mosè, che appartiene alla memoria comune dell’umanità e che risolve con grande sicurezza scenica e grazie alla sua piena vocalità di smalto smagliante, tanto più netta quanto più grave. Amaltea è Christine Rice, che vanta voce capace di correre in tutti i registri con facilità, dai passaggi più gravi ai più acuti, mentre il gran gusto del fraseggio ripara all’emissione un po’ nasale di Enea Scala, nei panni d’un passionale Osiride.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Direzione
Solisti
Coro
Orchestra
Scenografia
Costumi
Pubblico
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bagliori-quaresimali-di-mose-in-egittoMOSÈ IN EGITTO <br>di Gioachino Rossini <br>Azione tragico-sacra in tre atti <br>Libretto di Andrea Leone Tottola, dall’Antico Testamento e dal dramma di Francesco Ringhieri, Osiride. <br> <br>Direttore Maurizio Agostini <br>Regia David Pountney <br>Scene Raimund Bauer <br>Costumi Marie-Jeanne Lecca <br>Luci Fabrice Kebour <br>Assitente alla Regia Polly Graham <br> <br>Interpreti <br>Faraone, Alex Esposito <br>Amaltea, Christine Rice <br>Osiride, Enea Scala <br>Elcìa, Carmela Remigio <br>Mambre, Alisdair Kent <br>Mosè, Giorgio Giuseppini <br>Aronne, Krystian Adam <br>Amenofi, Lucia Cirillo <br> <br>Allestimento della Welsh National Opera <br>Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo <br>Lingua italiano con sovratitoli in italiano e inglese <br>Durata 3 ore circa compreso intervallo di 20 minuti <br>In scena dal 15 al 20 marzo 2018 <br>Napoli, Teatro di San Carlo, 20 marzo 2018

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