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Venticinque racconti dell’erranza: Agota Kristof e la sua vendetta

Agota Kristof squarcia il velo del reale con venticinque racconti bellissimi e spietati, che niente hanno da invidiare al loro fratello maggiore, Trilogia della città di K.

Quando si parla di Agota Kristof, scrittrice ungherese della seconda metà del Novecento, non si riesce a non pensare immediatamente al suo indiscusso capolavoro La Trilogia della città di K., pubblicato da principio in tre parti separate, poi raccolte in un unico volume negli anni Novanta, raggiungendo un successo tale da essere tradotto in oltre 30 paesi.

Eppure la bravura della Kristof emerge prepotente in tutte le sue opere, anche quelle rimaste sconosciute, oscurate dalla luce del successo del loro fratello più celebre; una di queste è la splendida raccolta di venticinque racconti dal titolo La vendetta (titolo originale: C’est egal) pubblicata a Parigi nel 2005 .

Il mondo che emerge in queste narrazioni, la cui lunghezza non supera mai le quattro-cinque pagine, è quello crudo e crudele a cui l’autrice ci ha già abituato nella Trilogia, ma se nel romanzo la lunghezza del filo narrativo permette un’alternanza tra l’efferatezza dell’esistenza e i suoi rari sprazzi di indiscussa dolcezza, nei racconti il ritmo serratissimo non lascia spazio alla consolazione e la Kristof mette in scena le sue paure e i suoi disincanti senza cedere mai il posto all’illusione della redenzione.

La sua tecnica narrativa, sempre pulita e asciutta, quasi spolpata fino all’osso, si presta bene alla descrizione di queste storie che non sono altro che squarci nella vita di persone di cui non sappiamo quasi nulla, se non quello che ci viene raccontato nelle parentesi brevissime in cui qualcosa di assurdo o scioccante accade, senza però lasciare spazio al patetismo o all’estetizzazione del dolore.

Le storie si alternano legate da un unico minimo comune multiplo: la miseria dell’essere umano. C’è il racconto del trovatello che aspetta tutta la vita la lettera del suo padre biologico e quando la riceve decide di scappare a Cuba; c’è la moglie che cechovianamente uccide il marito a colpi d’ascia perché a causa del suo russare non riesce più a dormire; c’è lo studente che uccide il suo professore preferito per sottrarlo alla crudeltà dei compagni e c’è anche l’uomo che non si presenta all’appuntamento con una sconosciuta perché non pensa di essere abbastanza.

Accanto a questi racconti se ne colloca una serie che si ricollega al tema del nostos, del ritorno anzi in questo caso del mancato ritorno, tanto caro alla Kristof; lei, che a causa dell’invasione sovietica è stata costretta a vivere il resto dei suoi giorni in una Svizzera inospitale e mai amata, riversa nei racconti di questo filone tutto lo struggimento legato alla perdita dei luoghi della propria infanzia e lo fa con una poeticità che riesce in maniera incredibile a legare alla sua prosa scarna.

L’uomo che tutta la vita cercherà di ricopiare la casa dove è nato per poi capire che nessuna copia sarà come l’originale o il giovane che ama passeggiare per le strade della sua città e quando è costretto ad andarsene prova un dolore e uno struggimento pari ai crampi dell’amore sono personificazioni della scrittrice stessa, l’erranza che li caratterizza non è altro che il sentimento che l’autrice porterà con sé per tutta la vita, vivendo in un paese che non sente suo e scrivendo in una lingua (il francese) che sentirà sempre di non padroneggiare bene e per questo si autodefinirà un’analfabeta.

La prova scrittoria di questa raccolta di racconti vede una Kristof maturata che come una spugna ha recepito gli insegnamenti e le indicazioni dei grandi scrittori di short stories dell’Otto-Novecento e li ha rielaborati alla propria maniera; si sentono ad esempio remoti ma decisi gli echi del già citato Cechov o quelli di un apparentemente distante Carver, ma il modo in cui l’autrice raccoglie queste tendenze e le amalgama con la sua storia e con la sua scrittura non sono paragonabili a nessun altro e rendono questo libro un unicum che attraversa secoli e temi narrativi senza dare troppo nell’occhio e diventando per questo un gioiello ancora più raro.

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