[rating=5] Elizabeth Strout, premio Pulitzer nel 2009 per Olive Kitteridge, libro da cui è stato tratto una celebre serie TV americana, ha scelto Genova, Torino, Milano e Mantova tra il 23 e il 28 maggio, per presentare il suo ultimo romanzo Mi chiamo Lucy Barton (Einaudi, 161 pagine). Come in tutti i suoi libri anche in questo romanzo emerge il suo particolare talento nel saper creare con poche intense pennellate lo sfondo storico, sociale ed emotivo in cui si muovono personaggi indimenticabili che ci si porta dietro anche quando si chiude il libro.
Per cinque giorni chiusa in una stanza di ospedale per una complicazione postoperatoria, Lucy si ritrova faccia a faccia con sua madre come davanti ad un fantasma ricomparso dall’oblio. Improvvisamente il microcosmo provinciale della sua squallida infanzia fa irruzione nella sua nuova vita nella sfavillante New York. La storia si dispiega su tre tempi: l’adesso in cui racconta in prima persona la voce di Lucy, ormai scrittrice affermata con un marito e due figlie, il passato (negli anni 80) di quei giorni trascorsi in ospedale con la madre riemersa dal passato e da un mondo lontano, che è il fulcro del romanzo, e il passato remoto e doloroso della sua infanzia che si fa largo tra i silenzi e il non detto nel dialogo tra le due donne. È un romanzo breve e dilatato nel tempo, come un tessuto che si srotola a poco a poco, come l’autrice stessa ama definire il proprio modo di raccontare. In principio è una storia semplice ma che man mano si complica, si moltiplica, si stratifica, perché la storia di Lucy Barton è anche quella di un’America povera, di cui non siamo tanto abituati a leggere, l’America provinciale del Midwest, non quella mitica dei pionieri, ma quella fatta di una miseria domestica, vergognosa, da rinnegare, di famiglie costrette a vivere in freddi garage, bambini abbandonati a se stessi, costretti a frugare nei cassonetti davanti ad una pasticceria, esclusi dal mondo reale e lontani dal “sogno americano”. Se nell’infanzia la lettura diventa l’ancora di salvezza per Lucy, perché sono i libri consegnarle il mondo nei lunghi pomeriggi passati a scuola per scaldarsi, da adulta la scrittura diventa la via del riscatto e del successo.
Dalla sua insegnate di scrittura ha capito che “ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Ma tanto ne avete una sola”. La voce della madre al capezzale del suo letto le riporta le vite provinciali e i fallimenti dei vicini, come a giustificarsi dei propri e per eludere la loro vicenda personale. È una voce nuova quella della madre, che a tratti la culla, perché si ritrovano a parlare come non hanno mai fatto, e a tratti la turba, perché fanno capolino i ricordi dolorosi e il disagio dell’infanzia. È comunque nuova la prospettiva da cui Lucy osserva il proprio passato, da un luogo sicuro, accudita da un medico benevolo. Il grattacielo luccicante che troneggia al di là della finestra, testimone silente di quell’incontro, le ricorda come il degrado umiliante del suo passato sia lontano, malgrado il tormento che ogni tanto le procura. “Deve essere il sistema che adottiamo quasi tutti per muoverci nel mondo, sapendo e non sapendo, infestati da ricordi che non possono assolutamente essere veri. Eppure, quando vedo gli altri incedere sicuri per la strada, come se non conoscessero per niente la paura, mi accorgo che non so cos’hanno dentro. La vita sembra spesso fatta di ipotesi”.