[rating=3] Nuraghi. È il termine che indica una costruzione o un complesso di costruzioni megalitiche, dalla forma a tronco di cono, databili intorno al II millennio a.C. Con funzioni diverse: difesa, deposito, abitazione.
Nell’immaginario collettivo è il mistero e il fascino di queste architetture a costituire il centro della civiltà nuragica, che da esse prende il nome. Il sito di Su Nuraxi di Barùmini, presso Cagliari, è tra le mete turistiche più ambite della Sardegna e contribuisce a mantenere alta la reputazione della regione.
Pochi sanno, tuttavia, che esiste un’altra vitale testimonianza di quella meravigliosa civiltà, che non è frutto di una sedimentazione materiale, ma di un costante lavoro di riproduzione immateriale, umana.
È la musica delle launeddas, strumenti a fiato ad ancia battente, composti da canne in grado di produrre un’estrema varietà di suoni, una gradevole polifonia. Sopravvissuti nei millenni e nonostante un periodo di declino negli anni ‘60 e ’70, oggi questi strumenti conquistano le nuove generazioni.
Con Nodas. Le launeddas al tempo della crisi, tra i film di apertura del festival Immagini&Suoni dal Mondo (2-4 novembre 2015), Andrea Mura (filmmaker) e Umberto Cao (antropologo) documentano la tenacia con cui alcuni giovani sardi portano avanti la tradizione, mostrando le difficoltà che essi incontrano al confronto con la società moderna. Nodas è il modello melodico-ritmico, ripetuto con variazioni, cui questi musicisti fanno riferimento per comporre, e spesso improvvisare, la loro musica.
È una passione che, a fronte di una elevata dispersione scolastica e di una conseguente mancanza di prospettive d’impiego, eleva molti giovani sardi, tra i 15 e i 35 anni, al rango di ricercatori scientifici e musicisti professionisti. La scuola fondata a Escolca nel 1978 da Antonello Trudu e da Dante Olianas (etnomusicologo e consulente per la realizzazione del film) ne consente la formazione professionale. Pur non avendo modo di consolidarne la fortuna in ambito lavorativo.
Più di qualunque musicista, questi ragazzi scontano la dedizione a un’arte che, a causa di un mancato inserimento nel circuito distributivo ufficiale, li relega nel mondo del folk; un genere che, pur se di pregio, non consente di sviluppare tutte le potenzialità dello strumento e non conduce certamente a lauti guadagni.
Il costruttore di strumenti musicali, Pitano Perra, li definisce “figli della crisi”, perché la mancanza di lavoro e il precoce abbandono della scuola, hanno restituito loro il tempo per prepararsi e divenire dei veri maestri, custodi di un’antica sapienza.
Il rapporto con il lavoro è problema centrale per la loro esistenza: l’esigenza di curare le mani, evitando calli e ferite, non consente di compiere qualsiasi mestiere. Così un autista di autobus si trova in difficoltà; ma anche la via delle ripetizioni è preclusa: uno di loro, tentando di trasmettere la propria conoscenza via Skype ad un allievo californiano, ha presto perso questa fonte di reddito, per la difficoltà e la costanza che lo studio di un simile strumento richiede.
La passione, però, non li abbandona. Tanto che ogni circostanza, ogni situazione, diviene occasione per suonare e danzare: così, con uno po’ di sforzo e fantasia, anche le cannucce di plastica si possono trasformare in launeddas perfette e un supermercato chiuso, di notte, diviene luogo d’improvvisazione per un duetto launeddas – organetto con balletto.
Il suonatore di organetto deve pensare con due teste: una che segue le prerogative del suo strumento, l’altra che adatta quel linguaggio, lo traduce, per colloquiare con le launeddas. È un bilinguismo che contagia tutto il film: molti testimoni parlano sardo ed è evidente che si tratta di una lingua a parte, non di un dialetto, tanto che senza sottotitoli risulterebbe del tutto incomprensibile. C’è poi il confronto tra etnomusicologia e cinema, che nella forma documentaria trovano il loro punto d’incontro. E c’è il confronto tra moderno e antico, compresenti e sintetizzati (bella la scena all’interno di un locale underground in cui le launeddas sono accompagnate da un sintetizzatore) dalla sapienza di questi giovani.
Le istituzioni non danno risposte soddisfacenti e nessun talen show è previsto per i suonatori di launeddas: l’unica speranza che resta è quella di trovare fortuna altrove, lontani dalla propria terra.
Si perde così un prezioso patrimonio di conoscenze e abilità, un’arte che, per continuare a esistere, ha bisogno di essere praticata. La richiesta per il riconoscimento e la tutela è stata inoltrata all’UNESCO, ma non sarà sufficiente ottenere un’accettazione formale. È necessario creare spazi e opportunità d’impiego per chi si fa carico di tenere vivo il patrimonio culturale della Nazione.
Il film ci mostra l’incanto e la gioia di questa realtà, spesso legata alla festa, soprattutto religiosa (non vi è processione cui i suonatori di launeddas non prendano parte). Le immagini sono vivaci e suggestive. Il cerchio narrativo si apre e si chiude con, in primo piano, dei piedi che tengono il ritmo: espressione di un’intima necessità dell’essere umano di muoversi a tempo di musica. Sui titoli di coda, anche una danza che ricorda il sirtaki, che mostra la consonanza di paesi e tradizioni in tutta Europa. Una dimensione glocale in cui queste realtà potrebbero salvarsi.
Lodevole la fotografia, accesa persino da tramonti color fuscia e da lamelle di fuoco che salgono da un falò, ripreso in contre-plongé.
La suggestività di molte sequenze raggiunge l’apice con la visione di Massimo Congiu che suona le sue launeddas in cima a Matchu Pitchu: una vibrazione estatica, un ambiente quasi familiare, in cui lo strumento trova una dimensione propria e corrispondente. Le pietre rispondo, quasi fossero un pubblico spontaneo che gareggia con l’artista: pietre cariche di memoria, che rivivono del suono delle launeddas.
Al termine della proiezione, il maestro Michele Deiana suona alcuni brani dal palco, dove troneggia il manifesto del Festival, con al centro un chitarrista, tra i protagonisti del film che seguirà. Il pubblico, estasiato, chiede il bis. E lo ottiene: musica per processioni e balli di gruppo, con una varietà di suoni e di accenti inusitata e ricchissima.
Infine, giunge Artemio Olianas, che presenta la sua azienda (omonima) produttrice di vini: metodi biologici e tradizionali, senza mezzi pesanti e concimi artificiali. Degustazione a seguire.
Per informazioni: www.olianas.it (sito dell’azienda), oppure www.launeddas.it/iscandula (sito di Iscandula, l’associazione culturale che si occupa della tutela delle launeddas).
Ci vediamo al cinema!