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Vermeer, Amsterdam: la luce in mostra

Fino al 4 giugno ad Amsterdam la grande – e forse ultima – mostra dedicata a Jan Vermeer

Vermeer exhibition. Photo Rijksmuseum/ Henk Wildschut

Deve aver piovuto da poco, l’aria è più tersa, pur se qualche goccia d’acqua insiste ancora a render l’aria umida e gonfia, nonostante la luce del sole cominci a riscaldare le case della città, come spesso capita da queste parti e di questi tempi, coi suoi repentini cambiamenti d’umore, in cui si passa, nell’arco di cinque minuti, dal sole tiepido d’aprile alla pioggia battente e poi di nuovo al sole. Ci dà il benvenuto, la celeberrima Veduta di Delft, dipinta nel 1660, oggi al Mauritshuis di Den Haag, a questa mostra qui al Rijksmuseum di Amsterdam, intitolata semplicemente col nome del protagonista Vermeer, evento artistico – e non solo – dell’anno.

Entri nel grande museo e ti accorgi subito, in ogni caso, della profonda diversità nel modo di esporre e di costruire un percorso che è meditazione ed educazione, emozione e stile, rispetto ad altri “eventi” che, invece, molto concedono alla facilità e immediatezza dei modi. Costruiscono, infatti, i curatori Gregor JM Weber e Pieter Roelofs un itinerario giocato tutto sulla sobrietà, quasi sulla severità, utilizzando, in fondo, gli stessi stilemi, le stesse eleganti caratteristiche, gli stessi criteri estetici che furono proprie del Maestro di Delft, che in vita sua non dipinse probabilmente più di cinquanta opere, la maggior parte dei quali concentrandosi su un angolo di casa e sui complessi rapporti, su uomini e cose, che la luce creava entrando a fiotti da una finestra.

Così, solo ventotto – delle trentasette da noi conosciute – tele sono presenti alla mostra e nulla più: nessuno dei suoi contemporanei – alcuni molto importanti – nessuno dei suoi precursori, nessuno di coloro che, in modi diversi e anche particolari, si sono nel tempo richiamati alla sua pittura; la mostra comprende Vermeer e solo ed esclusivamente Vermeer. Ventotto tele di Vermeer possono sembrare moltissime se si considera la produzione totale, ma alla fine potrebbero risultare veramente poche per una mostra di così alto richiamo: la prima scommessa vinta dai curatori è stata proprio questa, e sospetto che sarà d’esempio per molte altre mostre che a questa seguiranno: badare all’essenziale, praticare la difficile arte del sottrarre piuttosto che cedere alla tentazione di aggiungere, chiosare, perdersi in mille rivoli inutili.

Vermeer exhibition. Photo Rijksmuseum/ Henk Wildschut

Il designer Jean-Michel Wilmotte crea, per il piccolo mondo di queste ventotto tele, un universo di sobri verdi, blu e malva, su cui le tele risaltano in modo intenso e mirabile, finestre su alterni e a volte enigmatici siti, mantenendo intatto e prorompente il loro significato più intimo e profondo, che è quello di consentirci, attraverso squarci dello spaziotempo, di incrociare differenti storie e diverse geografie, in cui liberamente immergerci, sciolti anche dai vincoli che possono creare le didascalie appese accanto a ciascun dipinto: qui solo il titolo, la data, il museo dove sono conservate, si lascia ai Vermeer il compito di parlarci di Vermeer e di se stessi.

Confesso che, in tal modo, perfino la folla – a tratti eccessiva e a volte rumorosa – e il fastidio che poteva ingenerare, passavano in second’ordine, tutta l’attenzione era concentrata sulle tele, sul dialogo che instauravano con noi, sulle emozioni che, infine, potevano e riuscivano a donarci. Così non potevi fare a meno di chiederti dov’è quel particolare a prima vista insignificante, nel citato gran ritratto della città di Delft – perché di questo si tratta, non certo di un panorama – di fronte al quale Proust fa morire lo scrittore Bergotte, rammaricato di non aver più tempo per “stendere più strati di colore, rendere la mia frase preziosa in sé, come quel piccolo lembo di muro giallo”.

E vista così, accanto, la piccola tela della Stradina – di casa qui al Rijksmuseum – della stessa città, sembra quasi l’artificio di un bravo regista che dal campo largo stringe su un particolare, bambini che giocano nella viuzza tranquilla, una vecchia che cuce, una donna che lava, occupazioni insignificanti di cui riempire, invece, di significati una vita, mentre le nuvole – oh si, quelle stesse nuvole – di lassù guardano indifferenti gli umani vivere, amare, costruire case di mattoncini rossi dipinte poi con una mano incerta di candida calce.

Perché poi il segreto di Vermeer è in fondo tutto qui, nel riuscire a dipingere le – poche – vedute di città trattandole come ritratti e i suoi scorci d’interni come vere e proprie nature morte con umani e qui, in quella che a noi appare come perfetta maestria nella riproduzione dei tessuti, dei materiali, dei colori e delle forme, trovare un senso e un limite, una intensa joie de vivre che tuttavia si stempera in una incancellabile, inafferrabile nostalgia, che passa attraverso la riproduzione integra delle forme attenuandone tuttavia i forti contrasti, in una combinazione unica di morbidezza e, insieme, di precisione. Parte allora di qui, dalle piccole cose d’ordinaria serenità, l’itinerario spirituale al seguito del Maestro, con le sale che si susseguono, ognuna delle quali raggruppa dalla due alle quattro tele, in cui il criterio di sequenza temporale si sposa con quello didattico e tematico, in una catena esaltante ed emotivamente significativa che rivela anche qualche sorpresa.

Vermeer exhibition. Photo Rijksmuseum/ Henk Wildschut

Come nella seconda sala, quella degli inizi ancora incerti sui temi che saranno propri della maturità, in cui accanto alla scena da trivio della Mezzana della Gemäldegalerie di Dresda, troviamo scene mitologiche – Diana e le ninfe del Mauritshuis – o religiose – il Cristo in casa di Marta e Maria della National Gallery di Edimburgo, la tela più grande in assoluto dipinta da Vermeer – e poi anche la Santa Prassede del 1655. Questo quadro ha sempre suscitato forti perplessità circa la sua attribuzione: copia giovanile di un quadro di Felice Ficherelli, è stato bandito nel 2014 da Christie’s come Vermeer, realizzando 6,2 milioni di sterline; custodito dal Tokyo’s National Museum of Western Art, riceve in questa mostra la sua definitiva consacrazione.

E non è il solo quadro controverso: anche la Giovane donna seduta al virginale è stato, fin dal 2004, quando fu battuto da Sotheby’s per 16 milioni di sterline, d’incerta attribuzione, ma qui ad Amsterdam viene presentato di sicura mano del Maestro, come pure la Fanciulla con flauto, la cui attribuzione a Vermeer è stata messa in dubbio, proprio di recente, dagli esperti della stessa National Gallery di Washington dove è conservato: Pieter Roelofs, uno dei curatori del Rijksmuseum si è spinto a dire che “the doubt will disappear during the flight over the ocean”.

Polemiche e discussioni sono legate anche alla mancanza di alcune tele, troppo fragili per viaggiare, o di eccezionale attrazione turistica per i musei dove sono esposti: emblematiche, in questo senso, sono le clamorose assenze di due tele in particolare, l’Arte della pittura del Kunsthistorisches di Vienna, secondo alcuni il capolavoro del Maestro, e la celeberrima Ragazza con l’orecchino di perla, sicuramente il quadro mediaticamente più conosciuto, troppo prezioso per il vicino Mauritshuis che lo ha concesso ma solo fino al 30 marzo, per vederlo occorre recarsi a Den Haag.

Al di là di tutto questo, la mostra resta di grande importanza e attrazione, i quadri splendono di luce propria, dalla Lattaia di casa qui ad Amsterdam, il cui particolare del latte versato nella ciotola è uno dei simboli della mostra, alla Merlettaia del Louvre, perfetto esempio della maestria di Vermeer nel creare inganni raffinati dell’occhio, attirato ad arte dal minuto lavorio delle mani al centro focale, mentre man mano che ci si allontana da quello i colori ricadono in ondate quasi liquide, alle tante Fanciulle in pose e cappelli vari, dalle tumide e lucide labbra che riflettono la luce, all’Allegoria della Fede, posto a suggello della mostra con tutto il peso della simbologia teologica cristiana, anzi cattolica, in un Paese non solo a forte prevalenza protestante ma che tollerava una manifestazione esclusivamente privata della propria fede nella Chiesa di Roma. Ulteriore prova, se volete, della vocazione anticonformista del pittore di Delft, per tanti versi ancora un mistero che questa mostra si propone, almeno in parte, di risolvere.

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