Home Arte Munch, tra l’urlo e la vita

Munch, tra l’urlo e la vita

A Roma fino al 2 giugno le opere dell’artista norvegese che ha dipinto i tormenti dell’anima, ma anche il suo riscatto

Edvard Munch Rosso e bianco 1899–1900 Olio su tela, 93,5x129,5 cm Photo © Munchmuseet

Nella storia dell’arte ci sono delle icone, immagini emblematiche che escono dalle tele e dalle cornici per entrare nella cultura popolare. A volte anche nella cultura pop. Tra queste, per esempio, Il bacio di Klimt, Gotico americano di Grant Wood, la pipa o la bombetta di Magritte… senza scomodare l’onnipresente Gioconda.
Stessa sorte è toccata a L’urlo di Munch, divenuto simbolo quasi universale del dolore e dell’angoscia. Quel volto deformato dall’ansia e dalla paura ha ispirato perfino una faccina per lo smartphone.

Ma ovviamente Munch non è solo L’urlo. Conoscere ciò che ha fatto prima e dopo ci aiuta a capire come sia giunto a quel grido disperato, e come sia sopravvissuto a tanta disperazione.

L’opportunità ce la offre fino al 2 giugno la mostra “Munch. Il grido interiore”, organizzata da Arthemisia a Palazzo Bonaparte di Roma. Cento opere provenienti quasi tutte dal Museo Munch di Oslo sono disposte in un percorso espositivo su due piani, suddivise in sezioni tematiche, alternate a video, contenuti audio, estratti dei suoi numerosi scritti, e a un’esperienza immersiva in una sala di specchi che moltiplicano le opere di Munch in uno spazio idealmente infinito.
Tutto ciò per raccontare un’anima che ha cercato di guardarsi dentro come poche altre hanno osato fare. Ed era un’anima che a guardarci dentro ci voleva coraggio.

“Ho ricevuto in eredità – si legge nei suoi quaderni – due dei più terribili nemici dell’umanità: la tubercolosi e la malattia mentale. La malattia, la follia e la morte erano gli angeli neri che si affacciavano sulla mia culla.”

A cinque anni perde la madre e più tardi la sorella maggiore Sophie, entrambe di tubercolosi, la stessa malattia che colpisce anche lui, sebbene con esiti meno tragici. Successivamente muore anche il fratello Andreas. La sorella minore, Laura, soffre di disturbi psichici: la vediamo da bambina in un ritratto fattole dal fratello, che evidenzia già il talento del giovanissimo Edvard, e la rivediamo in età avanzata nel quadro Malinconia, che apre la mostra.

Ma Munch sa trasformare i suoi traumi in un linguaggio. A Kristiania (l’attuale Oslo), entra in contatto con un circolo bohémien, liberale e progressista. In diverse opere (come per l’appunto I Bohémien di Kristiania) riesce a rendere bene l’idea di quel clima di condivisione, di fermento culturale e intellettuale.

Edvard Munch Vampiro 1895 Olio su tela, 91×109 mm Photo © Munchmusee

L’amicizia con lo scrittore Stanisław Przybyszewski, appassionato di ottica, lo spinge verso l’interesse per lo studio del colore, che Munch intende non come semplice elemento per descrivere le cose, ma come rivelatore e termometro di emozioni, richiamandosi alla teoria dei colori “poetica” di Goethe più che alla visione scientifica newtoniana.
Munch dipinge le cose non come le vede, ma come le sente. Nei ritratti e negli autoritratti, il volto è il riflesso di un paesaggio interiore.

Annota nei suoi diari:
“Sto conducendo uno studio dell’anima, giacché posso osservarmi da vicino e usare me stesso come esperimento vivente per il mio studio. Proprio come Leonardo da Vinci ha indagato l’anatomia umana, sezionando cadaveri, così io cerco di sezionare anime.”

E di anime tormentate, nell’opera di Munch, di certo non ne mancano.
Quelle dei malati, dei morenti e dei loro cari, innanzi tutto. La morte torna sempre come un’ossessione: stanze soffocate dal lutto, presenze spettrali, dolore che pare prendere forma nelle pennellate. Ma anche le anime degli amanti, spesso unite in romantici baci, ma altrettanto spesso lacerate dalla gelosia, dall’abbandono e dall’incomprensione.
L’intenso legame sentimentale con Tulla Larsen finisce decisamente male, con una lite e un colpo di pistola che ferisce Munch a un dito. Lui vive il termine della loro storia come una sorta di morte e l’abbandono da parte di Tulla come un assassinio: nella sua versione rivisitata della “Morte di Marat”, Munch si autoritrae sanguinante disteso su un letto, mentre il corpo nudo di lei si allontana. Un altro quadro, con i loro ritratti, viene letteralmente segato in due dal pittore.

Edvard Munch Uomini che fanno il bagno 1913–15 Olio su tela, 200,5×226 cm Photo © Munchmusee

Questo è l’orizzonte – se non strettamente cronologico, sicuramente psicologico e artistico – in cui si colloca L’urlo: vertice dell’angoscia, apice espressivo di una visione esistenziale che non offre molte prospettive di speranza. Un ponte sul fiume, due figure indifferenti sullo sfondo e un essere solo vagamente umano che grida. Il grido non lo sentiamo, ma ne percepiamo distintamente la forza deformante. Il quadro, nella sua versione più celebre, resta al Museo Nazionale di Oslo, troppo fragile per viaggiare. A Roma è esposta una delle comunque celebri litografie, ma anche il quadro che potremmo definire il “gemello diverso” dell’Urlo, cioè Disperazione. Stessa scena, stesso ponte sul fiume con le figure di spalle che si allontanano indifferenti; ma il protagonista non è più un volto surreale sfigurato dal male, è semplicemente un uomo. Disperato, solo, rassegnato.

Però la vita e l’arte di Munch riservano anche ciò che non ti aspetti. Dopo un crollo psicofisico, si ricovera volontariamente in una clinica. Smette di bere, ritrova un equilibrio e con esso una nuova luce. La vitalità si prende sulle tele il posto che per lungo tempo era stato della morte. Dipinge paesaggi assolati, corpi maschili nudi in riva al mare (che riscuoteranno sia censure che consensi), uomini che lavorano la terra, mietitori di grano.

Munch morirà ottantenne nel 1944. Una vita inaspettatamente lunga, viste le premesse. Negli autoritratti e nei cieli stellati degli ultimi anni si coglie una malinconia più dolce, uno sguardo forse non del tutto pacificato, ma più sereno.

Forse era riuscito almeno in parte nel suo intento:
“Attraverso la mia arte ho cercato di spiegare a me stesso la vita e il suo significato, ma anche di aiutare gli altri a comprendere la propria”.

NESSUN COMMENTO

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here

Exit mobile version
X