Home Arte Le voci del ‘900 illuminano la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti

Le voci del ‘900 illuminano la Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti

[rating=4] La Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti di Firenze ha festeggiato il centenario della sua fondazione, 1914-2014, con una mostra dedicata alle maggiori voci figurative che hanno segnato il ‘900: Luci sul ‘900.

Le opere esposte hanno calato i visitatori nei fermenti culturali della Firenze primo-novecentesca, pullulante di innovazioni non solo pittoriche, ma anche letterarie e critiche. Dalla rivista Solaria al Caffè delle “Giubbe Rosse”, Firenze diventa la principale meta di incontro e scambio culturale di artisti ed intellettuali italiani ed europei. Ed ecco che si possono ammirare opere di Primo Conti, Giorgio De Chirico, Filippo De Pisis, Giorgio Severini, affiancati da Ardengo Soffici, Oscar Ghiglia, Vinicio Berti, Alberto Savinio, Giorgio Morandi, Baccio Maria Bacci, Felice Casorati, Carlo Carrà, Fernando Farulli, solo per citarne alcuni.

In apertura la voce di Primo Conti con il Ritratto di Lyung-Yuk (1924). Sorprendono, al primo sguardo, i brillanti colori delle vesti della donna, quel verde-acqua marina punteggiato da motivi floreali che mettono in risalto le grandi mani e il volto, nei quali giocano un ruolo primario quei contrasti di luci e ombre che ne esaltano i particolari, dal taglio degli occhi, al naso, alle labbra, alle dita di quelle mani raccolte sul delicato panneggio dell’abito, ai polsi, impreziositi di bracciali tempestati di pietre preziose. Un esotismo moderno che ne decreta la vittoria del Premio Ussi.

La rivista fiorentina Solaria, nata nel 1926 con Alberto Carocci, ha fatto conoscere a Firenze, e all’Italia tutta, i più grandi scrittori europei – da Eliot, a Virginia Woolf, a Joyce, a Pasternak, a Kafka, a Thomas Mann – e statunitensi – Hemingway in primis.

Ed è questa la rivista immortalata nell’olio su tela di Baccio Maria Bacci, titolato Solaria alle Giubbe Rosse (1930-1940). Una scomposizione di piani che pone al centro un gruppo di intellettuali riuniti intorno alla rivista, nell’interno del celebre Caffè fiorentino, all’ombra del Cupolone del Brunelleschi. Un richiamo al futurismo e al cubismo dove domina l’intersezione di piani sia nelle figure umane sia nel paesaggio circostante, calati in un vortice di colori, prevalentemente primari, con particolare attenzione all’intimità degli interni e alle qualità della rifrazione della luce, ora diretta ora più rarefatta.

Giorgio De Chirico  (Volos, Tessaglia 1888-Roma 1978) Natura morta 1930 circa olio su tela Firenze, Galleria d'arte moderna di Palazzo Pitti

Per il genere della natura morta spiccano, tra le diverse tele, quella di Felice Casorati dal titolo Natura morta con maschera (1930-32) e quella di Giorgio De Chirico, titolata Natura morta (1930 circa).

Nell’opera di Casorati dominano forme essenziali quali la maschera, la pera, il grappolo d’uva bianca, la pesca, il melone. Tutto è strutturato in una precisa dimensione spaziale matematicamente studiata, in un’immobilità che richiama alla pittura quattrocentesca. Un “realismo magico”, tipico dell’autore, che trapela dall’accostamento di elementi naturali e non, qual è la maschera, che conferisce all’intera natura quel tono enigmatico in bilico tra realtà/irrealtà, vero/falso, suggerendoci un interessante ed inquietante gioco di opposti.

Nella Natura morta di De Chirico esce la sua grande capacità di fissità degli elementi ritratti, ma questi elementi, come nel caso dei peperoni e dei grappoli d’uva della tela, possono esseri mossi dal vento che anima l’ambiente marino circostante. Una “vita silenziosa”, un’esistenza che si esprime in tutta la sua forza e la sua potenza attraverso la forma plastica della materia di cui essa stessa è costituita. La precisione insita nella resa pittorica sembra far vivere la consistenza dei corpi rappresentati e la loro statica morbidezza, avvolti dall’aria che, invece, penetra invisibile nell’opera, unendo la fisica alla metafisica. La sensazione percepita è eccezionale: i peperoni e l’uva sembrano poter essere toccati mentre l’aria marina li sfiora nella loro immutabile fissità.

Una rivisitazione sorprendentemente post-moderna del mito di Orfeo è quella che ci offre il fratello di Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, che dipinge Orfeo e Euridice (1951). Due giovani abbracciati su un divano, abbigliati modernamente: Orfeo con una felpa ed Euridice avvolta in una coperta dai colori sgargianti che dal verde fluorescente arrivano al verde acqua marina.

A chiusura del percorso espositivo merita attenzione il lavoro del pittore Fernando Farulli, titolato Piombino: spazio per un’autobiografia (1963). Una visione neorealista della città toscana, dai toni cromatici primari intrecciati fra loro, ora evanescenti, ora colati sugli altri. Colori e toni che conferiscono dinamicità e drammaticità alla visione. Un “esterno” di fabbriche nel quale la scomposizione e l’intreccio dei piani e delle luci sembrano narrare la perpetua lotta per la vita; quegli altiforni di Piombino sono prorompenti, dei veri e propri vulcani che gridano i colori ed esorcizzano i pericoli reali della fusione dei metalli. Un virtuosismo di tonalità e forme nei quali si può leggere, metaforicamente, la vita dell’autore.

Un percorso interessante che dovrebbe diventare permanente, al fine di poter permettere una maggiore fruizione e una più ampia conoscenza degli artisti che hanno gravitato nel capoluogo toscano in un periodo di grande attivismo e rinnovamento culturale che ha interessato non solo tutte le arti, ma anche l’architettura, la letteratura e la critica di settore.

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