[rating=3] Il Trittico di Jon Fosse andato in scena al Teatro India di Roma inizia con Suzannah.
Una donna anziana è seduta in penombra su una poltrona. Ha lo sguardo fisso davanti a sé, le mani incrociate sul grembo. Il suono di un orologio. Le luci si alzano e si intravede una tavola imbandita.
“E’ pieno di spifferi qui..ho sempre sentito degli spifferi..ma perché Ibsen non arriva..oggi è il mio compleanno”.
Improvvisamente irrompe in scena una ragazza è emozionata e inquieta, come tutte le ragazze innamorate: lei vuole sposare Ibsen e non le importa nulla se alla sua matrigna Maddalena non piace e se la sua amica del cuore lo trova insignificante. Ed ecco sopraggiungere un’altra donna: è più matura e con dolcezza e comprensione svela che è sempre stata lei la musa ispiratrice di Ibsen.
In scena le tre età della stessa donna, Suzannah Thoresen, moglie del drammaturgo norvegese: il ritratto di un’esistenza dedicata all’attesa, alla comprensione, alla dedizione totale ad un uomo schivo, bizzarro, egoista.
E ora che non c’è più, è solo il vuoto attorno all’anziana donna che afferma laconicamente “Non c’è coerenza in me e non c’è coerenza in nulla”.
Un cast femminile che riproduce egregiamente l’atmosfera claustrofobica del testo di Fosse, merito di una regia sobria ed elegante e di una bravissima Irene Petris.
Il secondo dei tre testi del focus è Io sono il vento. Due uomini sono su una barca che si dirige chissà dove, guidata dal vento, dalle correnti e dal caso. Di loro non si sa nulla, perché sono lì, quali sono i loro rapporti. Si avverte che aspettano qualcosa.
“Io non volevo, l’ho solo fatto”
“Insomma quello che avevi paura di fare è successo”
“Sì è successo e sono andato con il vento”.
Uno dei due vuole vivere, pur con tutte le contraddizione che ciò comporta, l’altro non ce la fa, perché vede solo sé stesso e sa che non può migliorare, che non vuole essere “qualcosa”.
Il mare conferisce al tempo quella dimensione sospesa; una certa “mollezza” è data dall’ondeggiare continuo della barca e la ripetitività di alcune parole aiuta a riprodurre un’atmosfera ossessiva. Un dialogo forse interiore sul senso della vita e della morte, una sorta di leopardiano dialogo di Plotino e Porfirio.
Ma saranno reali i due uomini? E la barca esiste davvero o è solo una costruzione mentale? Ma sono entrambi vivi? Oppure uno è morto e l’altro si interroga sulla scelta che l’amico ha compiuto senza probabilmente trovare una risposta?
E infine Inverno.
E’ un’alba gelida, una ragazza sbronza, dopo una nottata in discoteca, si ferma in un parco. Non riesce a stare in piedi, barcolla e avanza verso un’elegante donna in tailleur che passa davanti a lei. La blocca, cerca di instaurare un dialogo con lei, le dice più volte in maniera maliziosa “Io sono la tua ragazza e tu lo sai…non puoi lasciare così la tua ragazza”. Un incontro che sembrava impossibile, due solitudini che si scontrano, due esistenze che sembravano destinate alla deriva alle quali forse è data ancora una possibilità.
Battute ripetitive; partiture fisiche pulite e studiate; frasi che restano volutamente sospese per esprimere la frattura emotiva che entrambe si portano dietro.
Una regia che funziona e due brave interpreti, anche se non si comprende la scelta di stravolgere il testo, trasformando “l’uomo d’affari” in una “donna d’affari”.
Tre atti unici che rendono omaggio a Jon Fosse rispettando, con la loro messa in scena, la sua scrittura scarna ed essenziale; la sua dimensione sospesa; lo squallore della quotidianità e la sua ossessiva ricerca dell’incomunicabilità.