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Suoceri albanesi ma problemi italiani

[rating=2] All’apertura del sipario e alla prima entrata in scena di Francesco Pannofino si sente subito un timido applauso che poi si trasforma in uno un po’ più sostanzioso. Da subito si percepisce un pubblico non proprio teatrale ma più televisivo al Duse di Bologna, in occasione dello spettacolo “I suoceri albanesi” con Emanuela Rossi e il già citato Pannofino, per la regia di Claudio Boccaccini. Infatti nelle prime file, riservate agli abbonamenti, si notano molte defezioni.

Fin da subito la recitazione è un po’ sparata, non si ricercano le emozioni dei personaggi per esaltarle ma ci si limita a dire quanto è scritto sul copione e a tirare avanti: ci si poteva aspettare, dato che talvolta le commedie richiedono un andamento più ritmato a scapito di una profondità espressiva ed emozionale degli attori; in questo caso però anche i personaggi risultano molto stereotipati e improbabili: la figlia dei protagonisti, piena di problemi di studio ed esistenziali che poi risolve, tutti insieme e in brevissimo tempo, conoscendo un ragazzo, per non parlare del generale dell’esercito che ha visitato tutto il mondo, gay, che fa tai chi al mattino nel parco facendosi apprezzare dai clacson delle macchine di passaggio per il suo completino rosa.

Purtroppo la ricerca ad ogni costo della risata del pubblico “sforza” gli attori ad atteggiarsi, a mimare le battute che spesso risultano telefonate, riusciamo ad anticiparle e quindi perdono di forza. Ad esempio non si viene colti di sorpresa dalla frecciatina fra due personaggi, perché entrambi si mettono nelle posizioni (posturali e “testuali”) per cui se ne potrebbe tracciare la traiettoria senza timore di sbagliare. Poi le battute spesso non sono azzeccate, e nel loro basso livello risultano anche telefonate. Un esempio? Il generale racconta un suo viaggio e si lancia in una metafora che paragona la vita ad un viaggio in barca a vela: ci si può trovare in un brutto mare, ma basta non arrendersi, guardare all’orizzonte, pianificare la rotta, cazzare la randa e salpare. E la battuta finale che chiude il quadretto qual’è? “ma mi spiegate cosa vuol dire cazzare la randa?!”… Purtroppo fin dall’inizio del racconto si sapeva dove si voleva andare a parare… Fortunatamente non è sempre così, ci sono anche buoni sbocchi comici, come la cucina molecolare e il “lesso destrutturato” su una foglia di alloro, ma si alternano a momenti di buio.

Paradossalmente il personaggio più riuscito è proprio l’albanese padre, che si muove bene sul palco e che sembra quello più vero e meno costruito. Gioca coi pregiudizi sugli albanesi con leggerezza e non cerca la risata per forza, riuscendo per questo forse a farci ridere più di altri.

Una commedia che non decolla praticamente mai ma che porta a casa il successo di pubblico, a giudicare dagli applausi finali e dai bigliettini di gradimento all’uscita del teatro. Il selfie finale, che inquadra tutta la platea, servirà sicuramente a fare promozione allo spettacolo, ma a teatro queste cose generalmente ci vengono risparmiate.

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