Che bello quando in un piccolo ma delizioso contesto di periferia si consuma improvviso e inaspettato il magico rituale del teatro, fors’anche frantumando riserve ormai quasi “doverose”, di questi tempi non poco cupi di festival teatrali capitolini. A buon intenditor poche parole. E’ quanto accaduto venerdì 16 settembre al Teatro Ygramul/Spazio Arteatrio, dove è andato in scena per la rassegna di teatro contemporaneo Doit Festival: Stelle Nere.
A dispetto del titolo, il testo di Fabio Banfo si districa infatti abilmente fra le tenebre (d’altri palcoscenici non troppo giustamente prezzolati) e ci irradia piutosto di magnifica luce artistica, con la parabola umana di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, le due star cinematografiche del ventennio, finite tragicamente all’alba della Liberazione. La scena è scarna ma funzionale, evoca la costrizione di una stanza, quella stanza lombarda dove la coppia di attori, uniti anche nella vita, dovette passare gli ultimi istanti delle loro esistenze.
La drammaturgia ci scaglia subito in medias res, in mezzo a quei fatti dell’ultimo inverno nero, durante il quale l’attore Valenti si arruola nella Decima Mas del crudele torturatore Koch, forse nel vano tentativo di salvarsi la pelle e proteggere altresì la compagna, la bella Luisa, già dolorosamente colpita dalla perdita del primo figlio della coppia, Kim, morto appena nato.
Dopo anni di glorie e applausi a Roma, la città del cinema, l’apparato fascista decide di spostare tutte le produzioni a Venezia, ma è già tardi, è iniziata per i due la parabola discendente, stanno già “scomparendo” senza saperlo, o forse sì, mentre lei porta in grembo un nuovo seme che non potrà germogliare. “Siamo lì, per sempre”, dice Luisa ad Osvaldo, forse la frase più incisiva di tutto il testo, lì a Venezia siamo morti, pare suggerire in silenzio, come in una di quelle mute battute che avevano segnato i loro esordi, perchè per loro non era più il tempo della fama.
Sopravvivono solo le illusioni del passato, quelle che contengono “la realtà, senza le cose che non ci piacciono”. I telefoni bianchi non squillano più, se non per annunciare un destino segnato, Luisa e Osvaldo finiscono a Milano inghiottiti nel vortice della vendetta antisaloina. Saranno i partigiani a fucilarli, dopo un sommario processo, come molti altri testimoni, in fondo innocenti, proprio come Luisa, di un tempo infame e sanguinario.

Un racconto intenso, serrato, che trascina il pubblico nello scambio di dialoghi vibranti, affidati alla bravura di una triade attoriale non da poco, dove tuttavia spicca su tutti la voce e la presenza scenica di Fabio Banfo, anche regista e autore. L’atmosfera è nera, come nell’evocativo titolo dello spettacolo, eppure riesce a brillare di luce propria, restituendo l’interesse e la curiosità per una delle molte vicende semi-sconosciute della nostra storia recente.
Lo spettacolo è stato prodotto dal Centro Teatrale Mamimò, firmatario di molte piéce memorabili, non tutte così brillanti, ci si perdoni l’insistenza sulla metafora, ma certe altre esperienze di luci “sempre più fioche”, forse avrebbero meglio ceduto il passo a testi come questo. Ci auguriamo allora un felice esito per Stelle Nere all’interno del Doit Festival, una manifestazione che si fregia di contenuti sempre di altissimo livello, nonostante il circuito “off” talvolta considerato ingiustamente di “serie B”.
All’Ar.Ma e Ygramul teatro di Roma gli spettacoli sono invece solo di serie, grande livello e professionalità, o per dirla con le parole di Cecilia Bernabei, una delle animatrici della rassegna: “artigianali”, con tutto il sudato fascino che questo aggettivo può evocare. Dieci spettacoli in gara, in un tessuto artistico fecondissimo, aperto allo scambio e alla condivisione, ma anche alla promozione di un teatro di valore, che speriamo di veder crescere negli anni.