[rating=4] Delicato, sofferto, Saverio La Ruina entra in scena. Per la rassegna Teatri di confine siamo a Villa Scornio (Pistoia), in una sala raccolta con pareti verde acqua, dominata da un organo perfettamente conservato e da affreschi color pastello sulla volta del soffitto. Eleganza tenue che segue il perimetro della stanza e si posa sul corpo magro, compassato, espressivo dell’attore, nonché regista di quest’opera, con cui ha vinto il Premio Ubu come miglior interprete nel 2012. Si tratta di Italianesi, un assolo condotto con semplicità, voce calda, mani non tanto docili, simili a due libellule che sanno pietrificarsi per esaltare un discorso, il più disagiato forse.
Saverio La Ruina entra in scena, pressoché vuota, fatta eccezione per una sedia che inizia a spolverare dolcemente con un fazzolettino bianco, prima di iniziare il racconto, che subito agguanta la nostra attenzione. Egli restituisce alla parola la dimensione terrena, il compito di smuovere e offuscare, porgere un flusso di sbalzi temporali, che alla fine si ricompongono in un unico scorcio.
Saverio La Ruina è adesso un uomo che cerca di parlare della sua storia ingarbugliata dalla Storia, e lo fa senza accorgersene, come parlando tra sé e sé fissando la sua immagine tremolante in uno stagno.
Egli procede a ritroso nella selva degli stimoli mentali e ripercorre le tappe della sua vita; in bilico tra le punizioni corporali e l’abbandono del padre, l’amore, lo struggimento per un paese non lontano che sogna ogni notte, la salvezza grazie al suo lavoro di sarto, la ricerca dei colori mancanti.
Un uomo nato dall’unione tra un soldato italiano inviato in Albania durante la Seconda Guerra Mondiale e una donna albanese, che dopo la fine del conflitto, bambino, non riesce a imbarcarsi con il padre per tornare in Italia. Un uomo che, essendo figlio di un italiano – visto come fascista e sovversivo dal regime comunista che si instaura in Albania -, viene rinchiuso in un campo con la madre, da cui uscirà solo negli anni ’90. Non un campo di grano. Un campo di concentramento. Lì crescerà, si innamorerà di una ragazza dagli occhi azzurri come il cielo, la sposerà; non prima di aver conosciuto un sarto calabrese che gli insegna a parlare uno strambo dialetto, e un mestiere vitale.
Saverio La Ruina sa cucire frasi che trasmettono uno struggimento continuo, fino al momento dell’incontro con il padre in Sardegna, dove lo stupore scroscia con rumore. Un padre che non si ricorda e non vuole ricordare. Lo stesso boato si ode dietro le parole di un personaggio senza radici, spaesato in Albania come in Italia, divorato in un piccolo punto del corpo, da anni, da racconti su un paese dove tutti sono cantanti, e che poi si rivela grigio e verde. La delicatezza con cui Saverio La Ruina riesce a tramandare tutto questo senza risultare pesante o falso, riuscendo anche a commuovere, consola qualche parte nascosta di noi che ha bisogno di sentirsi narrare una fiaba dolorosa.
Una produzione Scena Verticale, disegno luci di Dario De Luca, musiche di Roberto Cherillo, con il sostegno della Regione Calabria, Italianesi riesce a colpire la sfera emotiva degli spettatori, che parla all’infanzia perduta, triste, o radiosa; accomuna il passato col presente.
Bellissima prova d’attore, sulle ali di un linguaggio instabile e movimentato.