Lei è Sarah Vanhee, un’artista belga che per un anno ha conservato i suoi rifiuti, quelli non organici, custodendoli e catalogandoli gelosamente in circa quaranta scatole di cartone, di quelle da trasloco o del tipo che useremmo per mettere via “roba vecchia”. E di traslochi e cose in “disuso” si parla, anzi no, si comunica, in Oblivion, presentato allo Short Theatre il 14 e 15 Settembre allo Studio 2 della Pelanda. Ecco dunque che negli spazi dell’ex mattatoio romano avviene l’insolito matrimonio fra le mura di una passata mattanza e il presente di spazzatura sempre più ingombrante, che crediamo di smaltire solo perché la “traslochiamo” in un imprecisato altrove di cui dopotutto non ci importa granché, mentre l’abbandoniamo al fondo dei nostri cestini.
E’ proprio da questo originalissimo punto di vista che si innesta la performance della Vanhee, scevra da qualunque moralismo ecologista, il suo discorso ruota attorno ad un’inversione rivoluzionaria che diventa quasi una dipendenza: conservare lo scarto, quello che celiamo all’occhio, credere di perderlo, perché “inutile”, ormai “invisibile” e lasciarlo poi restituirci tutta la sua bellezza in una ricomposizione lenta e minuziosa. Compare così dopo quasi tre ore, l’enorme tappetto di rifiuti prodotti da un singolo essere umano nell’arco di una manciata di mesi, una danza silenziosa di oggetti che ebbero una funzione e ora non ce l’hanno più, o forse sì, ma completamente diversa. Siamo noi a guardarla in modo insolito, guidati anzi incantati dalle parole di Sarah, che racconta il gigantesco lavoro di raccolta, studio, analisi, fra ironia e tormentosi girotondi, inseguendo il fuggevole concetto del “necessario”. E’ un bagaglio molto più grande di quanto potremmo immaginare e le foto dei mandarini marci e delle bucce di mela (istantanee di rifiuti stavolta organici e dunque non salvabili) che scorrono su un monitor mentre attendiamo di affollare la sala, ne sono solo minuscola premessa.

C’è spazio per molto altro, anche per un tipo di “rifiuto” meno indagato, quello virtuale, mostruoso colosso di spazzatura telematica che giornalmente affolla i nostri pc, ma non solo. Quante trash-words, quanti discorsi, quanti testi, quanta presunta “arte” da spazzatura? La wasteland di Sarah mostra pian piano la sua anima perturbante; quanta strada fatta dall’omonimo poemetto di Elliot al videogioco post-apocalittico che pure ne porta il nome, passando per il rap “sporco” di Kate Tempest e il suo dramma dello spreco, Wasted, appunto, fino forse alla Venere “stracciona” del Pistoletto. Eppure non sono questi i riferimenti artistici della Vanhee e nemmeno c’è di mezzo la Abramović di cui pure oseremmo dire abbia raccolto e reinventato un’eredità difficile, ma il gioco delle sinestesie e degli incroci si attiva magicamente, mentre lei dipana vasetti vuoti del suo adorato yogurt greco e bottiglie di plastica. La plastica giustappunto, universo di polimeri dai nomi complicati, ostinatamente resistenti all’eco-sostenibilità, eppure così attraenti e irrinunciabili nei loro pack multicolor, Sarah li “risemina” su un pavimento che non può accoglierne le radici e ci invita ad ascoltarne il silenzio.
Quando è completo il quadro di questo tesoro di rifiuti, è chiaro l’intento di spingerci a re-immaginarci in un luogo-non luogo pieno di tutto quello che avevamo scartato: non solo oggetti, ma anche pensieri, suoni, odori, azioni, idee, relazioni. Inaspettatamente siamo investiti da quella strana gioiosa meraviglia del ritrovare qualcosa o qualcuno creduto perso per sempre. Questi “rifiuti” effettivamente ci parlano, tornano ad appartenerci, forse non sono più spazzatura, non del tutto ed è un peccato che in italiano sia difficile cogliere il sottile gioco di differenze fra “refuse” e “waste”, ma il messaggio arriva in ogni caso chiarissimo. Tutto si ricollega, ogni tipo di scarto o rifiuto della nostra esistenza è appunto nostro, un nostro “prodotto”, finché non decidiamo di liberarcene, la Vanhee ce lo riporta indietro lasciandoci riflettere sulla “consistenza” di questo strano patrimonio del quale è regina proprio la “cacca”, tema su cui l’artista si diverte a ragionare fra Duchamp, Piero Manzoni, Buñuel e resoconti di stitichezza.
Una performance unica, emozionante, in grado di attivare i più reconditi o dimenticati meccanismi interiori che ci riportano alla memoria qualcosa che è stato nostro e il motivo per cui adesso non lo è più, soffermandoci con la malinconia del passato a quelle parole, quei progetti, perfino quei dannati vasetti di yogurt che in fondo con un po’ più di coraggio e impegno potevano trasformarsi in altro. Ed è sul finale che in fondo Sarah “accende” la nostra rete neuronale, proprio quando le luci calano e la coltre di spazzatura spiaggiata emerge dal baratro dell’Oblio appunto. Sono i faretti UV a far risaltare il bianco, ora quasi fluorescente di quei tanti vasetti usati, che adesso sembrano davvero “fiorire” come primule dal nero abisso della dimenticanza.
Produzione CAMPO, grande personalità tanto nella performer che nell’opera, che ha coinvolto un numero crescente di professionisti, un lavoro di ricerca raro, accurato, dove ogni dettaglio, dal progetto audio alle luci, passando perfino per l'”abito di scena” dell’artista, è studiato con l’invidiabile attenzione che sfugge a molto, troppo, teatro contemporaneo. Niente retoriche anti-spreco o stantii moniti al riuso, solo la semplice evidenza di un mare di idrocarburi complessi che forse finiranno tristemente nel ventre di qualche balena del Pacifico e non perché è un gioco troppo complicato di interessi, non perché ormai la nostra società vegeta sullo spreco, non perché è comodo, non perché è impossibile sfuggire all’impero della plastica, no. Semplicemente perché l’abbiamo comprata noi quella bottiglietta. Tutto qui.