Lo studio radiofonico si apre come un piccolo teatro del mondo: microfoni, cabine e luci segnano un confine labile tra realtà e finzione. Radio International, di Beppe Rosso e Hamid Ziarati, visto al Teatro Cantiere Florida di Firenze, promette di raccontare l’informazione sotto pressione, le notizie che corrono tra verità e falsità, e le responsabilità morali e professionali di chi le veicola. Il concept, forte e contemporaneo, ha il sapore di un esperimento interessante: il radiodramma come strumento di riflessione sulla crisi di un Paese, di un’Europa in bilico e di un’umanità sospesa tra paura e compassione.
Dentro, cinque voci, due conduttori, uno stagista, un fonico e un ex giornalista mediorientale emigrato, cercano di tenere viva una radio in crisi. La notizia di una bambina siriana che tenta di oltrepassare il confine con la Francia esplode come detonatore, scompone equilibri instabili e fa emergere incomprensioni, contrapposizioni interiori e dubbi sulla deontologia e sul confine tra informazione e propaganda. La struttura stessa dello spettacolo riflette l’instabilità dei fatti che racconta: i cinque personaggi si muovono tra ansie produttive, contraddizioni etiche e battute serrate come attori di un radiodramma che richiama Orson Welles, e allo stesso tempo ne rilegge i codici per il presente.

La scenografia ricostruisce con precisione l’atmosfera di una redazione in bilico e l’inizio dello spettacolo convince per ritmo e chiarezza. Azzeccata la playlist musicale. La recitazione mostra invece differenze di equilibrio: Barbara Mazzi e Massimiliano Bressan, interprete del fonico, si muovono con naturalezza, mentre altri attori tendono a gestualità, cliché e toni più intensi, attenuando talvolta l’urgenza drammatica della vicenda. La figura dello stagista porta leggerezza, ma resta percepibile come convenzione teatrale, riducendo la complessità del dramma a un comfort narrativo.
La drammaturgia, pur partendo da una base solida (migrazioni, confini, informazione in crisi e diritti negati), non riesce a prendere una vera piega, oscillando tra il serio e il grottesco, tra il reale e la finzione distopica, finendo per non lasciare un segno duraturo. I momenti di tensione autentica si confondono in un flusso dove il comico spesso prevale sulla tragicità, senza garantire né risate memorabili né spunti di riflessione. La regia segue pedissequamente questo andamento, con una modulazione del ritmo non sempre convincente e pochi momenti di sospensione o ascolto.
Lo spettacolo resta così un esercizio che si aggrappa a temi forti senza osare fino in fondo. La sala, raccolta ma con purtroppo pochi spettatori nella replica del 29 novembre, amplifica un’atmosfera intima ma meno incisiva. Ne emerge una proposta con potenziale evidente, che in alcuni passaggi appare fragile e al margine della forma, come un segnale radio debole che solo a intermittenza trasmette la sua forza.