Mercoledì 18 ottobre, ore 22:15. Lo spettacolo è finito ma, prima di uscire dalla sala, il pubblico viene invitato ad attraversare un palcoscenico disseminato di oggetti: dischi, vinili, sedie, comodini, assi di legno, un cavallino a dondolo, una cesta di vimini. Una discarica di ricordi che costituisce, come recitano i cartelli posti alle estremità del palco, il «Museo delle Solitudini Raccolte».
Tra il 18 ottobre e il 5 novembre, la Sala Tre del Franco Parenti — trasformata in un ”theatre-in-the-round” — ospita “Parlami come la pioggia”, una suite di cinque atti unici scritti da Tennessee Williams, di cui quattro completamente inediti in Italia per la traduzione di Masolino D’Amico. Dal tema della repressione a quello dell’aggressività, dal ‘self-sabotage’ alla solitudine condivisa, a muovere questi testi non sembra tanto l’interesse per l’azione (ovvero, per il cosa accade) quanto una profonda curiosità per le dinamiche relazionali tra gli individui che li popolano.
Inoltre, la scelta della produzione di adottare un sistema di central staging moltiplica le possibilità di lettura da parte del pubblico, consentendo prospettive diverse, uniche e irripetibili ed incoraggiando un’immersione non solo emotiva ma anzitutto fisica. Guidati tra le fragilità dei personaggi, gli spettatori osservano sotto una lente di ingrandimento il ‘mal de vivre’ che è al contempo causa e effetto dei rapporti disfunzionali rappresentati.
Gli attori al centro della sala (Valentina Picello e Francesco Sferrazza Papa) naufragano in un oceano di oggetti sparsi per il palco, riposizionandoli di volta in volta per delineare i contorni della storia da raccontare. Ad ogni nuovo quadro devono destreggiarsi tra ritmi, età e registri costantemente diversi: dapprima interpretano due bambini, poi sono una coppia di quarantenni sull’orlo di una rottura, ancora un operaio e sua moglie, una madre e un figlio e, infine, due coniugi al lastrico emotivo. Una prova attoriale complessa che viene risolta attraverso una recitazione archetipica ricca di emotività incontrollabile, anche se talvolta uguale a sé stessa.
Il regista Andrea Piazza (classe 1995) individua come fil rouge tra questi atti unici la solitudine umana. Incapaci di comunicare tra di loro, tutti i personaggi parlano ma non ascoltano, si perdono nella propria narrazione, sembrano alienati nel proprio dolore e disinteressati verso quello dell’altro. Suggestiva risulta allora la scelta di Piazza di rappresentare l’incomunicabilità di una delle coppie sdoppiando e specchiando sul palco la camera da letto in cui l’azione prende luogo: separati da una precaria parete di assi di legno posta al centro dello spazio, gli attori parlano dandosi le spalle, vagano nel proprio recinto e dividono il pubblico in due fazioni assolutamente contrapposte.
Dalle musiche al disegno luci (particolarmente poetico e delicato, a cura sempre del giovane regista), tutto sembra ben armonizzato alla scelta di un affondo verticale sul tema della solitudine. Nonostante ciò, è proprio questa tematica a risultare generica o astratta, forse non abbastanza forte per riassumere in sé la vertiginosa quantità di stimoli che i testi selezionati offrono. Questo rende lo spettacolo godibile ma solo in parte coinvolgente, una raffinata rappresentazione che lascia il pubblico un po’ troppo distante. Fa d’altronde parte della scommessa, in una certa misura vinta, di legare sotto un’unica caratteristica drammaturgica testi concepiti in assolo.