
Lo spettacolo è Migone al Napalm. Il pubblico attende impaziente il suo protagonista, lo acclama, lo applaude appena appare sul palco. Il sipario cigola lentamente ed è Paolo Migone ad aprirlo, già dentro il personaggio, scontento e sconfitto come da copione – perché, dice, ancora non gli era capitato di aprirsi, addirittura, il sipario da solo e la polemica scherzosa ha subito inizio. Le risate sgorgano sonore, tanto è l’affetto che il comico livornese si è conquistato dopo il successo dei programmi televisivi Zelig e Colorado; l’atmosfera al Teatro delle Sfide di Bientina è intima, familiare, calda, c’è fibrillazione e leggerezza, come in attesa di un amico di vecchia data. Lui immancabilmente veste il camice bianco che lo contraddistingue, circondato dal tipico occhio nero, sorta di scienziato pazzo esperto nei controsensi quotidiani, esternatore dei disagi della coppia, del rapporto padre-figlio, dei nostri sballati tempi moderni.
Riuscire a far ridere delle disgrazie burocratiche, finanziarie, sentimentali dell’uomo medio è cosa non facile, in cui Migone riesce bene. Perché, come sottolinea quasi subito in una freddata delle sue, c’è poco da brindare al fatto di avere estinto il mutuo della casa dopo 20 anni, un paradosso sognare la vecchiaia per avere una casa tutta propria. Non è mancato all’inizio un accenno alle prossime elezioni, un momento semiserio complice la bandiera italiana sulle spalle dell’attore – soli tre colori e migliaia di problemi, brutture, mancanze e ingiustizie da tragicommedia. Saremo anche inventori della commedia all’italiana ma, a ogni campagna elettorale, le venature che sfiorano il ridicolo si fanno sempre meno divertenti. La parentesi politica si chiude e Migone comincia la sua carrellata di sketches, quando graffianti e sagaci, quando più monotoni, ma sempre aiutati dall’irriverente inflessione toscana, dalla schiettezza mai volgare valorizzata e lucidata dai grandi mattatori del passato e del presente.
Rispecchiarsi nell’assurdità dell’esistenza raccontata da un cabarettista è terapeutico e mette in gioco quel meccanismo di catarsi che è nel DNA della rappresentazione teatrale. Una “risata tagliola” e liberatoria al contempo, benefica e necessaria per digerire tic, nevrosi, code automobilistiche interminabili che sterminano i nervi, domeniche in giro per i grandi magazzini, viaggi organizzati e relazioni con i parenti acquisiti (suocera).
Migone calca la mano sulle divergenze tra universo maschile e femminile, talvolta scivolando nel banale, poi riprendendosi col suo mix ormai rodato di autoironia, surrealtà e vita ordinaria ingrandita al microscopio, fino a diventare esageratamente grande. Forse la bomba del titolo non è esplosa, ma il buonumore sì.