Una lezione di teatro a futura memoria, questa Tempesta in lingua napoletana con le marionette di Carlo Colla & Figli, orchestrata dal grande Eduardo sul limitare della vita, nei primi anni ‘80. Il maestro napoletano prende congedo dal mondo con questo classico del teatro, che riscrive sulla traduzione italiana della moglie Isabella Quarantotti, in una lingua arcaica: il napoletano del Seicento, da lui reinventato (La Tempesta, Einaudi 1984).
Lo spettacolo era andato in scena postumo nel 1985, sotto la supervisione del figlio Luca, per la regia di Eugenio Monti Colla, in occasione della Biennale di Venezia, su proposta di Franco Quadri che allora ne era il direttore. È stato ripreso e presentato quest’anno al Piccolo Teatro di Milano, in occasione del quarantennale della scomparsa di Eduardo.
Spodestato dal fratello ed esiliato in una lontana isola del Mediterraneo, Prospero Duca di Milano veste i panni della magia con un progetto a scadenza: consumare a freddo la vendetta fraterna, riprendere le insegne del suo ruolo politico e maritare la giovane figlia, protetta per anni da un destino crudele, con il figlio del re. Un piano ambizioso, che lo porta a riedificare il suo regno in una spelonca, sull’isola in cui è approdato col favore dei flutti, insieme alla piccola Miranda. Ma “’E libre de la raccolta mia pe’ me so’ assaje cchiù preziuse ‘e lo Ducato”, dice Prospero/Eduardo. Così, grazie ad essi, riesce a soggiogare le forze della natura, spiriti bonari e temibili creature: Ariele a capo di tanti “farfarielli” e Calibano, l’ultimo di una stirpe di giganti e ciclopi d’epica memoria, figlio disgraziato della Strega Sicurace. Lo spirito dell’aria, affine al Puck del Sogno del Bardo, nella trasposizione di Eduardo è uno scugnizzo sfrontato, capace di trasformarsi in ninfa, che anela all’emancipazione. È infatti solo per il momento al servizio del mago, che lo ha liberato anni prima dal tronco di un pino, in cui la strega l’aveva imprigionato. Sull’isola la megera aveva anche dato alla luce una creatura bruta, congiungendosi con il demonio: il povero Calibano, a suo modo vittima degli eventi e perciò simpatico nella sua rudezza, pronto a farsi pietra in mezzo alle pietre. Ma questi, adottato dal mago ed istruito all’arte del linguaggio, contravviene al patto di gratitudine verso il maestro, insidiando la piccola Miranda, e pertanto cade in schiavitù. (Si sa l’origine del male sta spesso nel lignaggio femminile, secondo una vulgata misogina arcaica, radicata nel teatro di Shakespeare).

Con questo lavoro, Eduardo consegna un lascito immenso non solo ai napoletani, a testimonianza della vitalità di una tradizione letteraria, oltre che musicale. Scritto in versi, impiega rime e allitterazioni giocose, di non semplice comprensione allo spettatore non partenopeo. Il lessico prezioso, arricchito di proverbi, evoca situazioni. I Santi Numi convivono: accanto a quelli tutelari Giove e Poseidone, e agli spiriti d’ascendenza celtica, fa la sua apparizione San Gennaro, tutti ad intercedere (si fa per dire) per Prospero e compagnia. Persino la terribile Strega di Algeri è diventata una janara, conosciuta popolarmente come Strega di Benevento.
Quale estremo atto d’amore per il teatro, in una sorta di bulimia proteiforme, Eduardo interpreta e registra la voce di tutti i personaggi, tranne quello femminile (affidato a Imma Pirro), nobili e ruoli di carattere portatori del comico. Sempre in parte, mostra una considerevole escursione vocale: dalle note basse di Calibano agli acuti della voce chioccia di Trìnculo. Canta nel corpo del rozzo “stupidello” e quasi sembra danzare graziosamente con lui. Alla fine, si presenterà in proscenio il suo avatar, secco secco e in abiti civili, a prendere gli applausi con i marionettisti della Compagnia Colla, che svelano il gioco scenico, per mostrare l’impalcatura o il castello del teatro: il mago Prospero, compiuto il suo progetto, può dismettere il “mantello magico” e le sue macchinerie e tornare a essere uomo, nella sua caducità.
“Nuje simmo fatte cu la stoffa de li suonne, e chesta vita piccerella nostra da suonno è circondata, suonno eterno”, questa la morale della commedia, le cui parole campeggiano in scena. E il tema della vita come sogno è evocato anche dai diversi sonni in cui cadono i personaggi. È un atto di umiltà da parte del demiurgo.
Sappiamo che La Tempesta è opera ultima di Shakespeare, in cui la riflessione metalinguistica è centrale e proprio per questo fu scelta da De Filippo, su invito di Giulio Einaudi a tradurre un classico. A sottolinearne l’importanza, Eugenio Monti Colla taglia l’allegoria di Cerere e Giunone, per regalare alla coppia dei giovani innamorati un delizioso spettacolo di marionette: en plein air, viene eretto in miniatura l’arco scenico della caverna, attraverso il quale abbiamo assistito all’intera vicenda (come da Prospero evocata) con tanto di timpano e colonne. Per non farsi mancare nulla, danza in proscenio un carosello di mascherine della Commedia dell’Arte, dal naso lungo. È un surreale gioco di rispecchiamenti. E il tema dello specchio della coscienza viene mostrato quando i personaggi blasonati, buoni e cattivi, vi scivolano davanti, persi nelle seduzioni dell’isola su cui sono naufragati.
All’inizio, Prospero dirige la tempesta, di cui cadono vittime il re di Napoli Alonso, di ritorno da Tunisi, dove ha sacrificato la figlia Claribella al gioco delle alleanze, il figlio Ferdinando, il fidato Gonzalo e i due traditori, Antonio e Sebastiano. Dal pesante naufragio tutti si salveranno (“Nun hanno perzo manco nu capillo”, dice Ariele), ma sono condannati a vagare per una giornata intera sull’isola, proiezione di quel mondo mitico di terrae incognitae, temuto dagli Europei.
Il racconto si chiude con il perdono delle canaglie, prima fra tutte il fratello Antonio: l’usurpatore che, delegato ad amministrare il Ducato di Milano, aveva stretto con il re di Napoli un vincolo di vassallaggio, rinunciando all’autonomia dello stato in cambio del titolo di duca. Intrigante e manipolatore, è così diverso dal mago incline ad un uso costruttivo della parola. L’ultimo confronto fra la sua ignavia e Prospero, maestro di buone pratiche, si giocherà appunto in questo nuovo regno, ma con il lieto fine della grazia accordata. Natura e cultura, istinto e intelletto, materia e logos, femminile e maschile: tutto è contemperato dalla magia bianca del Duca legittimo, al servizio della creazione.
Eugenio Monti Colla riprende il gusto per il genere Féerie, che aveva incantato il giovane Eduardo: nell’incipit delle nozze moresche sfilano cortigiani e odalische, come in un Ratto del Serraglio. Poi gli ambienti naturali di Franco Citterio si srotolando sui suoni misteriosi della lanterna magica accesa nella grotta di Prospero, un po’ Parco Gϋell di Gaudi.
La regia sembra inscritta nelle parole del drammaturgo, registrate nei primi anni Ottanta con l’aiuto di Gianfranco Cabiddu e si traduce nella gestualità delle marionette, icastica anche nelle controscene. Le musiche sono di Antonio Sinagra, autore dei brani di tutti gli spettacoli di Eduardo e già collaboratore di Roberto De Simone. Variano dalle tarantelle agli assoli di Ariele, interpretati da Antonio Murro alla maniera del maestro del Seicento napoletano, fino agli accenti contemporanei, dissonanti e circensi del deforme Calibano.