Ha un particolare avvio, questa Traviata che torna, prima della chiusura agostana, al Teatro San Carlo di Napoli, un allestimento del 2018 che punta sull’accorta regia di Lorenzo Amato e sulle scene evocative ed essenziali di Ezio Frigerio, oltre che sui documentati ed elegantissimi costumi di Franca Squarciapino: mi ricorda tanto, quel funerale sotto la pioggia – cercando una suggestiva e parimenti impossibile quadratura tra angoscia e tenerezza – l’apertura de La Contessa scalza, film hollywoodiano che, giusto settant’anni fa, raccontava la vita della protagonista, interpretata da Ava Gardner nel pieno del suo splendore, proprio a partire dal suo funerale, in un giorno di pioggia qui in Italia, a Rapallo, il regista Joseph L. Mankiewicz sceglieva, per una narrazione dai toni malinconici e autunnali, di cominciare dalla fine, in un lungo flashback che ripercorreva la vita di questa danzatrice spagnola, i suoi amori sfortunati, le sue raccolte allegrie.
Destino precocemente tragico che punisce donne che, pur esercitando una piena e consapevole libertà sessuale, si mantengano tuttavia spiritualmente pure, altissimo tributo a rigidi codici morali di un tempo asfittico: anche per questa Traviata tutta la narrazione, fondamento dell’articolata drammaturgia del regista, ripercorre sul filo della memoria e del rimpianto, della nostalgia e dello scorrere implacabile del tempo e della vita, la vicenda principale, prendendo le mosse dall’ineluttabile fine, in un parallelo, tormentoso ma pacificante compimento. Ho sempre trovato molto coerente, questo incipit, che non si limita, come superficialmente potrebbe sembrare, a registrare la nostalgia del ricordo che inevitabilmente suscita la pioggia, tuttalpiù limitandosi ad una mera e superficiale citazione cinematografica, invece scavando nel profondo, icona e testimonianza insieme della concezione verdiana della redenzione, ben diversa da quella corrente, ieri come oggi, occorre dirlo, radicalmente dissimile anche da quello dello stesso Dumas.
C’è un sentimento del tempo che, in qualche modo, contraddistingue i patimenti di Violetta Valery rispetto perfino a quelli del suo modello originale, Marguerite Gautier, La Dame aux camélias di Dumas: un divenire ben lontano dalla statica immobilità della società di quell’epoca – come di molte altre, compresa la nostra – che esita, alla fine, in una necessaria e dolorosa pedagogia delle emozioni e dei pensieri. Si trova a percorrere un tratto di strada, Violetta, stretta tra due formidabili forze che si fronteggiano, da un lato il fronte borghese familiare e benpensante e provinciale che s’incarna in Germont, dall’altro il demi-monde libertino e godereccio e volgare che è rappresentato dal mondo degli amici di Violetta: ambedue queste visioni, a pien diritto componenti entrambi della società francese – e non solo – dell’epoca, soffrono di rispettivi e paralleli egoismi e miserabili ipocrisie e Violetta trova in sé la forza di rifiutarle entrambe, sperando nel canto libero e pieno del giovane Alfredo, scommettendo sulla possibilità dell’innocenza, dell’anticonformismo, di un amore libero da stereotipi.
Violetta lascia la vita eccentrica e brillante di prima ma – al contrario di Marguerite, costretta, lei sì, ad arrendersi alle ipocrisie della società e a trovare unico riscatto nella morte – rifiuta di sottomettersi al codice morale borghese, compiendo invece una scelta libera e liberante, che è quella dell’amore, quanto mai “romantica” – al di là del senso deteriore da fiction televisiva assunto oggi dal termine – e del tutto inusuale e rivoluzionaria, che trova in Amami, Alfredo il suo compiuto manifesto, il punto più alto del suo doloroso divenire, acme di una vicenda che sente come prima esigenza quella di vivere nel teatro.
E sceglie, allora, Amato, di aprire e chiudere questa che è, e rimane, opera teatrale, con l’eterno risvegliarsi del Personaggio in quel silenzioso, attonito, pervadente inizio, giocato sulle note raccolte del primo preludio, come il prender vita di Violetta dapprima senza coscienza, abbandonata sul lungo tavolo dove poco più tardi si celebrerà la libagione dei lieti calici, quasi ara sacrificale su cui giace come vittima espiatoria, traco dell’antica tragedia che chiede e ottiene sangue, circondata da alcuni figuranti in frac, sotto l’insistere anaffettivo della pioggia; più volte li ritroveremo, nel corso della vicenda, quei misteriosi personaggi, con una maschera teatrale sul volto, fino al culmine dell’agonia di Violetta, Violetta muore mentre muore il teatro – la sua vita è la sua stessa durata – si chiude la scena mentre l’orchestra suona le ultime note, colori e luci implodono in un baleno d’oscurità e di nebbia per lasciare il posto alla visione indistinta di ciò che si trova al di là e al di sotto delle luci di scena, dei fondali dipinti, degli scenari colorati, la grigia e grezza architettura del palcoscenico che, come uno scheletro, permetteva alla scena stessa di stare in piedi e vivere.
Lo vedi presente, il teatro, nelle belle scene di Ezio Frigerio, fondali di legno tela e cartone alla maniera antica, il primo, durante l’ouverture, che rinvia ad una notturna cattedrale chiaroscurata nell’irresoluta luce lunare, mossa, sgranata, incerta come una delle Cattedrali di Rouen, se Monet ne avesse concepita una in luce notturna, è teatro il fondale del primo e terzo atto, la severa e ombrata sala della casa di Violetta, dai grandi finestroni in stile eclettico che pesanti cortine e tondeggianti timpani rimandano all’essenza di palchi teatrali, nel silenzio che precede la rappresentazione, spazio scenico sui lati delimitato da rossi sipari aperti, è teatro la vetrata art nouveau della casa di campagna presso Parigi che, insieme ad aguzzi cipressi delimita l’ambito di un riposato giardino, tanto ingenuo nella concezione e nel disegno da suscitare commozione, ripensando alle tante province dove il teatro vive, è teatro la galleria nel palazzo di Flora, infilata vertiginosa di rossi sipari che chiudono lo spazio affocato e ansiogeno, mentre dall’alto velari e sfondi minacciano continuamente di scendere e cambiare scena, atto, azione.
Parve a molti, alcuni anni fa, al debutto – questo lavorìo di (ri)conquista di una semplicità perduta, che è sempre piuttosto complesso – chiaro segno, invece, d’eccessivo pauperismo, d’indebita spoliazione, mentre altro non è che liberazione, finalmente – osiamo dire – dall’eccesso d’improvvido zeffirellismo che, in nome d’un illecito e barbarico horror vacui compulsivamente spinge ancor oggi a riempir la scena d’orride quanto inutili suppellettili e d’oziose sovrastrutture, emancipazione che restituisce l’opera alla sua inaudita e provocante nudità dove l’ha collocata l’Autore e dove più libera possa risuonare ed agire la musica e la parola.
Al contrario di certi celebrati allestimenti degli ultimi anni di Traviata – da parte di registi più avvezzi al cinema che al teatro – forse più visivamente attrezzati, ma in cui il significato ultimo di quest’opera veniva del tutto travisato, il rispetto del pensiero di Verdi è questa volta pieno, la sua trasposizione efficace, anche grazie alla mediazione di quel “velario di pioggia e lacrime”, luccichìo d’acqua che ininterrottamente scorre per tutta la durata della rappresentazione, ovattando gli sguardi, giocoforza creando un di qua del presente fruibile, un di là della teatralità possibile o vagheggiata: volendo guardare oltre al mero dato metereologico, oltre al banale significato di malinconica tristezza evocato da una morte giovane, è pure, l’acqua, segno costante di quel cambiamento che costituisce lo spirito e l’essenza stessa di Traviata, del cambiar continuo degli animi col mutar degli eventi, del sentimento del tempo che, nel suo lento ma sicuro procedere, investe tutti i protagonisti.
L’acqua, il suo ciclo, il suo inarrestabile scorrere, diventa così metafora di crescita e trasformazione, metamorfosi continua nell’opacità traslucida del fondo, che nasconde e rivela al tempo stesso, che altera le percezioni, creando riflessi e rifrazioni, miraggi, fatemorgane insistenti e vane: non è solo il cuore di Violetta che muta per un inenarrabile atto d’amore – anche se la sua maturazione è certo la più complessa – ci sono anche Alfredo e Giorgio, i due Germont, che dovranno percorrere un lungo cammino prima di arrivare a comprendere quanto il prezzo della loro libertà sia altissimo, la vita stessa di Violetta. È soprattutto Giorgio Germont, ad attraversare un percorso del tutto sconosciuto al romanzo francese: il suo personaggio, praticamente inventato da Verdi sulla poche tracce di Dumas, la sua dolorosa dignità, è il perno su cui si costruisce infatti l’apoteosi finale di Violetta, che non si pente, perché semplicemente non ha niente di cui pentirsi: questa formidabile intuizione, che è totalmente verdiana, è lo scandalo intollerabile dalla società dell’epoca, che fa di Violetta un personaggio universale e moderno.
E certamente, l’idea di questa sofferta maturazione che è alla base del riscatto della protagonista è alla base dello sviluppo del personaggio da parte di un’interprete come Marina Rebeka, che Violetta è stata per lungo tempo nei teatri d’Opera di mezzo mondo e che eccezionalmente è tornata a rivestirne i panni a causa di una indisposizione di Lisette Oropesa: sostituta di gran lusso, non delude di certo le aspettative né dei melomani né di coloro che chiedono ai cantanti, oggi, qualcosa di più, oltre ad una bella voce. Così, se la voce c’è – e che voce – tanto da far diventar tutto più chiaro, chiunque riconoscerebbe incarnate nel fascinoso splendore della voce della cantante lettone le famose “tre voci”, che sono tutt’uno con l’azione scenica, inscindibile anima – come diceva Proust – del dramma che s’avvita inesorabile in tragedia, è soprattutto l’assoluta irriconducibilità del personaggio ad altri precedenti, a colpire, la sua perfetta unicità che fa sì che ogni grande interprete di Violetta ne esplori un aspetto, un momento, un tassello che va a comporre la complessità inesausta del personaggio, risultandone alla fine una possibile e originale Violetta non perfettamente sovrapponibile alle altre trenta o trecento o tremila, rifuggendo da ogni “tipicità”.
La personale Violetta di Marina Rebeka è cantata con emozionante abbandono e con il cuore in gola, attrice incredibile e soprano dalla naturalezza quasi spiazzante riesce a risaltare, la sofisticata espressività in uno con la solidissima vocalità, in modo più evidente nel duetto con Giorgio Germont, il Dite alla giovane, cuore dell’opera, palpabile esempio che rende ragione di come Traviata sia il capolavoro musicale che è, testimone del genio musicale del suo Autore, che riesce a scrivere il primo dramma in prosa musicale del teatro nostro e che naturalmente – come ogni vera novità che sia sul serio tale – non fu per nulla gradito al pubblico al suo apparire, risultando una delle cause prime dell’insuccesso dell’opera, il fiasco della Fenice del 1853: basti osservare come dovunque la melodia fiorisca senza l’a capo e la ripresa, come sia rara la prolessi, pur rispetto al vicinissimo Trovatore, come e quante volte la frase si spezzi e poi riprenda, in un ritmo che è colloquiale, proprio del parlato, se pur sublimato dal canto, tuttora e sempre avvertibile.
Accanto a lei, con lei, per lei, costruisce Luca Salsi un Giorgio Germont in quello stesso duetto – che è culmine e sintesi perfetta della drammaturgia verdiana ma, al tempo stesso, miniera inesauribile dei mille aspetti che la ventura e il genio rendono possibile cogliere come fossero inesauribili novità creative – diverso dall’algido e anaffettivo padre che in questi ultimi tempi abbiamo visto sulle scene, quasi dovesse trovare giustificazione, nelle colpe dei padri, l’infelicità dei figli: è severo e perfino rabbioso, a tratti, rivendicando un ruolo e una personalità non convenzionale di padre – e di padre verdiano – che, almeno all’inizio, non comprende assolutamente nulla di quanto sta succedendo, l’estremo e inafferrabile comportamento di Violetta, chiuso nella sua rabbia borghese di provinciale, tutto orgoglio pompier diopatriafamiglia, un dialogo tra sordi che tuttavia sorprendentemente si apre, poi, all’inesausta novità. Non ho potuto fare a meno di pensare, guardando il Germont di Salsi, a quanto sia sorprendentemente attuale oggi, questo personaggio condito di rancore represso e grossolanità frustrata, che tanto ricorda un modo di essere e vivere e sentire che ritroviamo in certa ruralità d’Europa e d’America, imbottita di intolleranza e bigottismo.
E poi c’è Alfredo, personaggio di certo più convenzionale, volutamente conformista, che Kang Wang interpreta con scrupolosa diligenza: la voce probabilmente c’è, la stoffa d’attore pure, tuttavia l’impressione è che tutto sia ancora molto legnoso, impreciso, c’è senza dubbio molto lavoro da fare per raggiungere risultati eccellenti. Buono anche il drappello dei comprimari, da Clarissa Leonardi che rende bene una briosa Flora ad una preoccupata Annina di Laura Ulloa, da Andrea Galli che ci restituisce un perfetto superficiale Gastone a Gabriele Ribis che interpreta l’uggioso Douphol, dal vanesio d’Obigny di Pietro Di Bianco a Lorenzo Mazzucchelli che interpreta un solerte dottor Grenvil, un’umanità composita, ben assortito campione dell’umano consorzio che si riflette, ampliandosi, nel Coro del Teatro San Carlo, ben diretto sia sotto il profilo musicale che drammaturgico da Fabrizio Cassi; efficace anche il Balletto del Teatro, diretto da Clotilde Vayer, ci è d’obblgo segnalare l’efficace Matador di Raffaele Vasto.
Dirige l’Orchestra del Teatro San Carlo, infine, Giacomo Sagripanti, direttore musicale dell’Opera di Stato di Tbilisi che viene considerato uno dei direttori d’orchestra più interessanti della sua generazione nel panorama internazionale, l’avevo di recente ascoltato in un Concerto al Teatro Petruzzelli di Bari e non posso che confermare l’impressione senz’altro molto positiva che mi fece allora: riesce ad imprimere alla pagina una singolare chiarezza e un nitore quasi miracoloso – considerata anche la notorietà di queste note – spingendo molto su una scansione dei tempi degna delle migliori esecuzioni. E non sembri scontato, tutto questo, tra le tante Traviate lentissime e strenuamente cesellate che si ritrovano in giro e, all’inverso, le altrettante altre che sembrano opera rock, ben si riescono, in questo caso, ad apprezzare sonorità quasi inusitate, frutto dell’abile controllo del bilanciamento tra orchestra e palcoscenico, riuscendo a condurre in porto l’esecuzione con risultato ampiamente positivo, evitando sistematicamente ogni rigidità, riservando grande attenzione alle scelte esecutive dei cantanti, senza sminuire per nulla le prerogative dell’orchestra, che così ha potuto esprimere momenti di grande nitore, lasciando che il tempo – e la musica – respiri all’interno della misura e poi cercando di mantenere “aperte” le sonorità, senza mai lasciare che le trame si infittiscano.
Alla fine, puoi toccare con mano come questo gran lavoro, da parte di tutti gli interpreti, paghi in termini di consenso e, perché no, di affetto: il pubblico napoletano non è quasi mai prodigo di acclamazioni, eppure ieri sera gli applausi hanno interrotto più volte la rappresentazione, per poi trasformarsi in una vera e propria ovazione, alla fine, soprattutto riservata a Luca Salsi e Marina Rebeka, segno evidente di come eccelsi interpreti e ottima regia riescano a metter d’accordo tutti, melomani rétro e sfegatati progressisti, indicando di certo, questo, la buona salute del teatro musicale.