Ho inseguito questo lavoro di Alessandro Serra per molti mesi, una sorta di maledizione ha fatto in modo che di volta in volta il proposito di vederlo sfumasse per qualche motivo, grave o futile che sia: e finalmente sono qui a Bari, al Teatro Piccinni, per questa Tempesta, che già immagino, sull’onda dei ricordi della precedente creatura shakespeariana dello stesso talentuoso regista, Macbettu, vestirsi di notte e luce, di spirito e materia. Strana sorte, quella dei romances del Bardo: manifesto evidente d’una completa libertà di pensiero e di gusto, troverai, da sempre, chi li considera la vetta del genio, ormai giunto a completa maturazione, che riguarda e riassume la sua vita e il suo lavoro – la sua magia – fino a spezzar il bastone – bacchetta magica, scettro dello sciamano, penna d’oca che sia – e consegnarsi al silenzio.
Ma pure, sempre, troverai chi, all’opposto, tende a leggervi la crisi ormai irreparabile della disillusione e della vecchiezza, tra introspezione colpevole e principiar di senile demenza; altri ancora, più pratici, pensano di vedervi il riflesso d’un mutar delle fortune dei Lord Chamberlain’s Men, la compagnia di Shakespeare, che, godendo ormai dei favori di Re Giacomo, cambiarono il proprio nome in King’s Men nel 1603 e, cominciarono a rappresentare i propri lavori al Blackfriars Theatre, frequentato da un più danaroso pubblico, utilizzando anche una piccola orchestra e sfruttando la possibilità di rudimentali quanto ingegnosi effetti speciali. Chissà.
Su una cosa, però, almeno fino a qualche tempo fa, tutti erano d’accordo: sulla completa irrimediabile irrisolvibile inemendabile irrappresentatività delle quattro opere in questione; e tuttavia – potenza del tempo che passa – pure questo è cambiato, così che se effettivamente Pericle e Cimbelino sono ancor oggi poco frequentati, non si può dire altrettanto di Racconto d’Inverno e, soprattutto de La tempesta, oggi sicuramente uno dei lavori shakespeariani più rappresentati. Inevitabile, dunque, che prima o poi le strade di questo capolavoro e di Alessandro Serra si incrociassero, per la gioia di chi siede da questa parte della quarta parete.
Stasera ancora una volta, dunque, il vecchio Prospero esercita la sua magia, auspice un talentuoso regista che non si accontenta, di certo, di qualche sorpresa ad effetto ma che invece scava nel profondo, cercando ciò che sempre dovrebbe guidare chi si appresta a metter sulla scena il Bardo: perché il teatro, la vita per il teatro, l’addio al teatro e alla vita sono l’intento dichiarato dell’Autore e della sua Tempesta; naturalmente, come in tutte le circostanze della vita, massime in quelle che hanno a che vedere con l’arte, da una parte ci sono le dichiarazioni, i palesi riferimenti, gli scoperti mezzi di cui l’Autore patentemente si serve, dall’altra il cumulo, appena più in ombra ma che tuttavia sempre più s’aggrava, del non detto, della sopita architettura dei collegamenti, dei legami inesplorati, delle relazioni sottaciute perfino, talvolta, a se stessi.
E altro ancora, poi, e di diverso genere e spessore e valore, è ciò che percepirà lo sguardo di chi, al di là del limes del boccascena, vedrà l’opera, ciò che coglierà, percepirà, l’emozione suscitata, il pensiero portato alla luce grazie a quel gesto, a quella parola: tutto questo, la percezione, cioè, dell’ultimo fruitore, assomiglierà a quanto concepito come il fenotipo al genotipo, come cioè carne ossa e sangue al dna che a quella stessa stessa carne ossa e sangue sottende, potendo legittimamente, dunque, discostarsi da quella in modo anche sensibile.
Il lavoro di Alessandro Serra, disarmante, a volte, nella sua semplicità quando si considerino separatamente il linguaggio, la drammaturgia, le luci, tuttavia diventa ardua complessità quando tutti gli elementi vengano mescolati insieme e portati al calor rosso. La lingua di Serra possiede al massimo grado la possibilità espressiva che ci vuole per esprimere concettosità perfino astruse nei modi e nelle declinazioni del quotidiano, fino ad una semplicità che è frutto, e lo si vede, di gran lavorìo.
È sua, infatti, anche la traduzione dei versi, cui si accosta e risolve, per sua ammissione – non essendo traduttore professionista e non conoscendo a fondo le sottigliezze linguistiche – con un metodo tutto suo, operando, con certosina pazienza e studio accurato quasi una review delle traduzioni esistenti. Tradurre assume allora, in questo caso, anche significato di trasportare, trasferire e dunque Serra in altro mondo e altra storia ci conduce, facendoci assaporare una storia e una geografia che, di certo, almeno al primo sguardo, risultan del tutto aliene rispetto a quelle della nostra quotidianità, che ci appaiono al confronto scontate e trite. Ma tradurre è pure mimesis, invito alla sequela, all’imitazione, a farsi prendere per mano dall’Autore, in uno spazio dove le leggi naturali siano momentaneamente sospese ed entri in vigore un tempo rapsodico che trovi nella circolarità e non nella linearità il suo fondamento, mantenendo in continuo un rapporto dialettico e fecondo tra passato e presente.

È nel labirinto di questo spaziotempo, di cui Serra tiene saldamente in pugno il filo d’Arianna che ci consentirà l’uscita, alla fine, che il regista sa condurci. La traduzione di Shakespeare, in particolare, diventa scavo all’interno delle parole, perlomeno dentro alcune parole, quelle radianti, in tutto e per tutto sorgenti energetiche che irradiano, che zampillano in tutto il testo, provvedendo già, di per sé, a generare naturalmente immagini. Fin dall’inizio. Lungi dal servirsi d’artifici tecnologici, la drammaturgia parte, allora, dall’utilizzo di pochi, scarni elementi scenografici, ma forse proprio per questo la scena riesce ad ammantarsi di qualcosa che – grazie ad un dispositivo teatrale semplicissimo, un gesto della mano, un ritmo dei corpi, una luce che sapiente taglia la scena e ferisce il cuore – trascende la realtà; immediatamente dopo, tuttavia, il trucco viene svelato, si depongono le armi, il dispositivo teatrale viene esibito nella sua scoperta e in fondo innocua nudità.
E questo inevitabilmente rende il tutto – gesto, magia, disvelamento – di sicuro più potente, l’emozione più sorprendente e duratura. In fondo, allora, basta muovere la mano per scatenare la tempesta, che altro non è che deformazione, decadenza del tempo, tempo e tempesta possiedono la stessa radice, la stessa origine, i poteri di cui appare dotato Prospero (Marco Sgrosso), la sua magia, altro non sono che – oh, sì, come i miracoli – sospensione delle leggi naturali e il tempo è prima di tutto questo, espressione rigida di una legge naturale; tutto ciò che vediamo avviene in un tempo sospeso, la tempesta provoca una dilazione, un intervallo nella storia. In questo è essenziale lo spettatore, che siede sulla sua poltroncina di velluto rosso e si presta al gioco, concede fiducia che è anche convenzione, per cui se entri in palcoscenico e dici questo è il deserto, non c’è bisogno di metter sabbia e cactus, lo spettatore vedrà il deserto, dovrà vedere il deserto.
La magia consiste esattamente in questo, in questa determinante complicità tra mago – Shakespeare, Prospero o Serra che sia – e destinatario inconscio di questi gesti, di questo agire: non esiste teatro senza atto immaginativo dello spettatore. In realtà per tutto il tempo rimaniamo incerti se tutta la vicenda della premeditata involuzione e deformazione del corso degli eventi che vediamo sui quattr’assi dell’isola avvenga nella dimensione che con relativa sfrontatezza chiamiamo realtà ovvero in un altrove che altro non è se non la testa di Prospero, un sogno agito esclusivamente in mente sua, perché, si sa, siamo fatti della stessa sostanza dei sogni – e mai come qui ed ora questa frase, peraltro abusata, trova trova patria e ricetto – la realtà, i personaggi, i loro autori, la vita stessa, tutto è teatro, e dunque sogno.
E non è altro, il sogno, che soddisfazione di un desiderio altrimenti non espresso. Inconscio, talvolta, perfino doloroso nelle sue conseguenze ultime, ma desiderio, e così conserva intatta, questa Tempesta – perfetta come fosse, la riduzione di Alessandro Serra, uscita dalla penna stessa del Bardo – il carattere dell’originale, diventata poi nel tempo, come tante opere shakespeariane, parabola universale del potere e del desiderio, della paternità e del tormento. Così la magia di Prospero, estrema, catartica nostalgia del teatro, tal quale la ritroviamo con stupore simile, in fondo, allo spettro d’Amleto, alle streghe di Macbeth, forma obiettiva dell’interiorità, come diceva Hegel, fantasma dell’io, vaga chimera dell’inconscio che sembra annunciare ai figli dell’uomo il proprio destino, ma che rivela invece a lui stesso, che fino a quel momento lo ignorava, null’altro che il proprio desiderio.
Desiderio soprattutto – o illusione – del personaggio e del suo Autore, di poter tenere ancora insieme tutto quel che costituiva la coesione del cosmo medievale con il suo ordine universale di verità e giustizia: Dio e gli uomini, cielo e terra, realtà e sogno, alto e basso che nelle loro rispettive essenze convivono in pace. Sotto lo scettro di Prospero vivono in apparente armistizio spirito e materia, Calibano e Ariel, lo spodestato duca di Milano ricrea qui il suo piccolo regno, tipica utopia medievale, il cui territorio sempre più viene eroso da nuove conoscenze, inusitati modi di pensare, esaltanti novità: è tempo di cambiare, anche attraverso il teatro. Per questo crea, alla fine, la tempesta, per questo Serra fa comparire Ariel (Chiara Michelini) – lo spirito della creatività – fin dall’inizio, dalla prima scena (e non nella seconda) giacendo sotto un telo nero, come un cadavere ricoperto di fango in fondo al mare. E il telo che si gonfia, si alza, si apre, mostrando la zattera su cui sale Ariel, non è forse un sipario e quella zattera un palcoscenico?
In altre parole il teatro, la finzione, cioè, l’artificio, la suprema menzogna che diventa verità suprema, diventa chiave interpretativa della comprensione del mondo, e questo lo sappiamo da sempre, come la trappola per topi d’Amleto, risveglio della coscienza sopita. Solo alla fine, infatti, quando grazie ad Ariel e al teatro Prospero imparerà la compassione e questa genererà perdono – abbandonando, insieme ai propositi di vendetta anche la pretesa di tenere unito l’universo, perlomeno nella propria coscienza – potrà riuscire a spezzare il suo bastone e liberare Ariel. L’estrema saggezza diventa allora rinunzia alla sapienza – o a quello che si riteneva sapienza – e a spiriti e folletti.
È la modernità che irrompe, come la luce cui faticosamente si arriva dopo tanta tenebra – ho oscurato il sole a mezzogiorno – perché, come dice Stanley Cavell, Shakespeare alias Prospero è il protagonista fondamentale della svolta relativistica e scettica che crea l’uomo moderno – crea noi stessi – i suoi personaggi non parlano più in nome di criteri universali e oggettivi, ma imparano faticosamente a guardare in sé stessi, dando voce ai loro impulsi personali di desiderio, di potere, di riconoscimento. È la libertà, certo, ma costa cara, Ariel apre e chiude l’opera, la liberazione di Ariel, pur annunciata nel testo, non viene tuttavia descritta sulla scena, governa le brezze, mio dolce Ariel; questo sia il compito tuo. Torna quindi ai tuoi elementi; sii libero, e vivi felice!, e di solito qui c’è chi ricorre a grandi espedienti per sottolineare questa definitiva uscita.
Serra prova semplicemente a spostare la penultima scena alla fine, posponendola come si usa fare con un testo, mettendo un aggettivo prima o dopo un sostantivo: muta, il risultato, in modo sorprendente, l’esito emotivo, facendoci provare la stessa differenza, in fondo, tra un verso sublime e la lista della spesa. Tutto si condensa, infine, si ricapitola, trova senso e logica, nell’esclamazione sorpresa, quasi un sospiro, di Ariel che chiude l’opera, nella luce esplosiva prima del buio definitivo e dell’applauso tanto invocato che quella liberazione non solo approva ma (ri)crea, moltiplica, rifrange in mille raggi quella luce anche per noi, curiosi, al di qua della quarta parete.
E dunque tutto è perfetto, in questa Tempesta dell’irrappresentatività? Certo rimangono sedimentate nella memoria, formidabili nella loro purissima essenza, le potentissime immagini che la luce e il buio, l’accenno dei colori e la loro assenza, i fondali bui come la notte del peccato continuamente in movimento, il teatro e le sue malìe, insomma, sanno ricreare, evocate dalla bacchetta magica di Serra: il banchetto degli dei – le cui fattezze ci appaiono distorte, maschere arboree della natura – in una atmosfera vagamente luciferina; e poi i costumi di scena che discendono dall’alto, per rivestire Calibano (Jared McNeill) e i suoi nuovi compari nudi Stefano (Vincenzo Del Prete) e Trinculo (Massimiliano Poli), e la danza dei vestiti di scena nell’aria è forse il momento più suggestivo, fra i tanti: perché i costumi, in fondo, sono il teatro e i suoi abitanti. Guardai – scrive Jouvet in un suo vecchio racconto, citato anche da Strehler – i miei costumi sparsi, buttati qua e là per la stanza, ed ebbi la sensazione che quei personaggi, che io non avrei mai più animato, fossero morti. Passai una notte molto agitata: ebbi delle allucinazioni e, nel sogno, quei personaggi vennero a farmi visita. In pochi istanti invasero la mia camera: Sei un insensato, non siamo noi che siamo morti, sei tu che morirai. Tu non ci hai creato, hai solo indossato i nostri panni.
Panni che serviranno anche a rivestire spiriti e folletti in una sarabanda finale, estremo sovvertimento, nel travestimento, del mondo vecchio che lascia il campo a quello nuovo. Invenzioni, calembour dell’anima, giochi d’estrema destrezza, tuttavia non si può tacere che, in antinomia alla perfezione dei movimenti degli attori, alla perfetta sincronia con cui il meccanismo teatrale si apre e si chiude a comando, alla vera e propria partitura musicale che è costituita dai suoni, dai rumori, dai fruscii, dalle urla soffocate, resti in secondo piano, invece, il corrispondente sortilegio del recitare, delle voci degli attori, che rimane spesso appiattito sull’ordinarietà, in clamoroso contrasto col resto della macchina teatrale.
È comprensibile che Serra abbia imposto agli attori questo estremo rifuggire dall’enfasi, dall’accento manierato, tuttavia questa ricerca di una diversa, aliena prosodia approda spesso a risultati deludenti, probabilmente il consueto non s’addice al verso aulico del Bardo, pur se filtrato attraverso la penna contemporanea del Serra, stride, alla fine, il dimesso discorrer dei personaggi con la meraviglia dell’invenzione scenica. Rimane così, allo spettatore che lascia il teatro, un sapore lieve d’insoddisfazione non dichiarata, un vaghissimo senso di disinganno, un ricordo – quel Macbettu del desiderio e della materia – che lo rode di dentro, a pensare a ciò che poteva essere e non è invece stato, mancava un tanto così, per la Tempesta della compiuta perfezione.