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La classe, lo specchio, l’essenza teatrale

Torna, dopo il Napoli Teatro Festival del giugno scorso, al Piccolo Bellini di Napoli, lo spettacolo della Bellini Teatro Factory

Si alzano, improvvise – non te le aspetti certo – le note del Lago dei Cigni che fanno da tappeto sonoro alla mattanza che sta per cominciare: qui, in platea, al Piccolo Bellini di Napoli, stai assistendo a questa pièce molto particolare, a mezzo tra il laboratorio e il saggio finale, rievocazione cronachistica e riflessione storica, da parte dei ragazzi della Bellini Teatro Factory, diretti da Gabriele Russo, che della stessa Scuola è Direttore artistico: La classe – Ritratto di uno di noi simula le prove di una ipotetica messa in scena da parte di una classe di una scuola teatrale, a metà strada tra Ariadne auf Naxos e Sei personaggi, di un episodio della nostra contraddittoria umanità contemporanea, la vicenda, a noi tutti ben presente nell’orrore della memoria, di quel giovane terrorista norvegese, Anders Breivik, che, nel 2011, uccise, in una inusitata e tremenda carneficina, ben settantasette persone sull’isola di Utøya, in maggioranza giovani come e più di lui, che lì si erano riuniti per un campo scuola della Lega dei Giovani Lavoratori.

E fin dal titolo si lascia intendere che quella storia, che vide protagonista un giovane a danno di altri giovani, messa in scena da giovani che ne fanno, in tal modo, oggetto di studio e riflessione, possa trasformarsi in occasione di riverbero della coscienza, facile paradigma delle personali e sociali antinomie che descrivono l’epoca nostra, pur lacerandone, spesso, le fondamenta stesse, i patti civili, le regole su cui cercare, alla fine, a tentoni, di costruire quel minimo di felicità che in fondo tutti rincorriamo. Di fronte al dolore, all’incomprensibilità enigmatica del male, è facile che ognuno, cercando, per quanto possibile, di scrutare la realtà e d’indagare i fatti, nel tentativo di comprenderla, evitando, nei limiti della nostra finitezza, di esulare quanto accade nel limbo comodo e semplice della follia, cerchi di vedere oltre la nebulosità dei propri personali condizionamenti, oltre i difetti dello specchio a volte deformante attraverso il quale spesso vediamo il mondo e le cose: e allora entriamo in noi stessi, cerchiamo di dare una sicura stella polare, che risieda al sicuro nella coscienza nostra, al nostro giudicare e considerare, nella penosa e buia assenza di altri punti di riferimento situati al di fuori di noi stessi.

Ci rivolgiamo al nostro interno, cerchiamo inevitabilmente contatti, indici, possibili approdi – o coordinate sicure di navigazione – paragonando ciò che vediamo e sentiamo col nostro più intimo sentire, evitando, per quanto possibile, non solo le secche oscure dell’angoscia, ma pure le aurore boreali della nostra emotività, cercando di mantenere ben ferma la barra della nostra razionalità evitando che troppo vacilli.

E, soprattutto, in questa sorta di navigazione a vista, ricca d’imprevisti, di terre inesistenti, di nebulosi quanto favolosi mostri e lestrigoni e ciclopi, ciò che più temiamo, in fondo, è scorgere in fondo allo specchio oscuro attraverso cui intravediamo la realtà, il mostro assumere, mentre un brivido corre dietro la schiena, le stesse nostre fattezze, schegge di verità e di menzogna insieme che ammorbano l’anima, intorbidano la vista, ci precipitano nel maelström delle nostre disperazioni. Così, il gioco crudele del cigno bianco e del cigno nero, in cui l’uno si riverbera irrimediabilmente nell’altro, in un continuo rincorrersi ansioso, scoprendo, alla fine, ben di poco momento la differenza tra peccato e innocenza, tra esecutore e vittima, il brano di Tchaikovsky, incalzante nella sua subitanea apparente esuberanza, può ben descrivere l’orgasmo della fuga delle vittime, che nel buio volano come cigni verso l’acqua e la vita, ma anche l’eccitazione del cacciatore che le insegue esigendo sangue.

Poi, improvvisa, l’interruzione dell’emozione che stava salendo, il ritorno alla “realtà” della “classe”, la prova di un diverso cadere dei corpi morendo, la sostituzione del brano musicale con uno neomelodico, la ricerca teatrale, il continuo straniarsi, entrare e uscire continuamente dalla vicenda norvegese e da quella della classe ci restituiscono appieno il senso e l’essenza del teatro, della sua (in)consistenza onirica, del suo continuo farsi e rifarsi in una trama scritta da qualcuno che incontra l’ordito di chi quel teatro agisce, dall’una o dall’altra parte della quarta parete, generando un effimero tessuto, che si brucia consumandosi nel tempo stesso del suo generarsi.

Non sappiamo nulla dei quattordici giovani che riempiono la scena con qualcosa che, in assenza di ulteriori informazioni, potremmo supporre essere la loro stessa vita, calco più o meno perfetto di quanto riverberato in forma di teatro: voglio dire, non so se tra Andrea Liotti, Arianna Sorrentino, Chiara Celotto, Claudia D’Avanzo, Eleonora Longobardi, Luigi Leone, Luigi Adimari, Manuel Severino, Maria Francesca Duilio, Michele Ferrantino, Rosita Chiodero, Salvatore Cutrì, Salvatore Nicolella, Simone Mazzella effettivamente uno è nato a Bolzano, è juventino mentre gli altri tifano Napoli, non so se un altro è effettivamente di Procida, un’altra si è rifatta il naso dopo il liceo, un’altra ancora arrivava regolarmente tardi alle prove perché lavorava, un’altra ripassa la parte per il provino d’Aminta del giorno dopo.

Può darsi, almeno a leggere le note scritte dall’autore della pièce, Francesco Ferrara, che il testo abbia preso spunto dalle vite autentiche di ciascuno dei bravissimi allievi della scuola; e può anche darsi, soprattutto, che essi stessi abbiano riflettuto – mentre al lume incerto del telefonino ripassavano la parte, cercavano l’intonazione e la postura giuste per l’abbraccio tra la madre e il figlio assassino, dissertavano sulle colpe della società e del singolo, sulla differenza tra terrorismo e mafiosità – sul limite precario che, appunto, traccia la differenza tra lucidità e follia, tra ragione e torto, tra trovarsi, infine, da una parte o dall’altra di un apparente crinale che, tuttavia, a volte decide della vita o della morte delle persone.

Quello che è certo, invece, è che tutto questo, nell’atto stesso di esser rappresentato, è diventato finzione teatrale, intrecciandosi inestricabilmente con l’altro motivo – la rappresentazione di una sanguinosa strage e delle sue conseguenze, fino al processo – restituendo a chi stava in platea una messa in scena sicuramente più interessante, più viva, più convincente che se avessero recitato Pirandello o Brecht. Perché, a questo punto occorre dirlo, questo allestimento è nato per il Napoli teatro Festival del giugno scorso, voluto con coraggio da Gabriele Russo – “ho ritenuto necessario affrontare la fatica e il rischio di una creazione originale che in qualche modo li riguardasse come attori e come individui”, dice nelle note di regia – scritto da Francesco Ferrara ma, in qualche modo “coralmente” da tutti i quattordici protagonisti – “ho buttato giù una prima stesura che subito abbiamo verificato in scena… c’era ancora qualcosa che non funzionava… ho riscritto e modificato secondo le esigenze dello spettacolo, poi verificato ancora e riscritto ancora e così via” – in un lavoro di gruppo che, in qualche modo, restituisce il far teatro alla sua dimensione nascente di prodotto collettivo di una comunità.

Naturalmente il risultato non è esente da difetti, i suoi punti di debolezza coincidono, e c’era da aspettarselo, con quelli di forza, proprio il suo nascere, in fondo, in modalità di “saggio” produce inevitabilmente, nonostante l’indubbia bravura di tutti i ragazzi e la professionalità di chi li ha diretti in quest’impresa, una certa disomogeneità nel dipanarsi della vicenda e un leggero effetto di successione di siparietti che i vari monologhi e le varie scene produce alla lunga, figlio, certo, dell’esigenza legittima e sacrosanta di dare spazio a tutti. Tuttavia alla fine l’emozione scatta, il cuore si riscalda, i molti giovani che hanno condiviso l’esperienza in platea con i soliti veterani hanno seguito con attenzione e in silenzio, il teatro ha vinto un’altra battaglia, molti gli applausi, alla fine, per tutti i protagonisti.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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la-classe-lo-specchio-lessenza-teatraleLa classe - Ritratto di uno di noi <br>di Francesco Ferrara <br> <br>con Andrea Liotti, Arianna Sorrentino, Chiara Celotto, Claudia D’Avanzo, Eleonora Longobardi, Luigi Leone, Luigi Adimari, Manuel Severino, Maria Francesca Duilio, Michele Ferrantino, Rosita Chiodero, Salvatore Cutrì, Salvatore Nicolella, Simone Mazzella <br> <br>regia Gabriele Russo <br>aiuto regia Salvatore Scotto D'Apollonia <br> <br>uno spettacolo della Bellini Teatro Factory <br> <br>produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini <br>durata, 1 ora e 40' circa <br>in scena dal 10 al 14 aprile <br>Napoli, Piccolo Bellini, 12 aprile 2019

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