[rating=4] Nel centenario dalla nascita del franco-rumeno Eugène Ionesco, padre del teatro dell’assurdo che nel maggio del 1950 rappresentò per la prima volta al Thèatre des Noctamules di Parigi, con molti contrasti, La cantatrice calva, assistiamo oggi al Metastasio di Prato alla riedizione della succitata cantatrice per la regia di Massimo Castri.
La cantatrice calva è un testo eterno, sempre attuale, che incastra senza scampo la banalità della società di ieri e di oggi: un guscio vuoto pieno di convenzionalità.
Le situazioni teatrali avanguardistiche di Ionesco hanno origini dalla drammaturgia classica, ma all’interno di questo modello i personaggi si esprimono in forme linguistiche autonome e iconoclastiche. Ionesco altera le parole, le tronca, le armonizza nei più originali e gratuiti giochi di rime e di assonanze, pervenendo spesso a farle divenire strumenti per effetti unicamente sonori, con risultati comicamente paradossali. Dalle bocche degli attori fuoriescono stravolte ingiurie invece che risa, adulazioni invece che negazioni, aneddoti e aforismi distorti, folli ricette culinarie, dichiarazioni e dimostrazioni sempre più sconnesse che deflagrano in una sconclusionata apocalisse di urla e di suoni.
Tuttavia non possiamo considerare Ionesco come un semplice farceur con nessun altro pensiero che non sia il divertire lo spettatore, la sua è una comicità enormemente amara. Le parole sformate, i gargarismi vocali, l’ebbrezza comiziale di una dialettica fine a se stessa sono la manifestazione e la deduzione del caos che regna in anime tristemente opache e meschine, intrise di tutte le lordaggini della società. Personalità doppie, ipocrite e diffidenti di fronte a ogni meraviglia, ma stabilmente impegnate a ingannare se stesse recitando una commedia falsamente superba.
In una marea di vaniloqui, i personaggi accatastano luoghi comuni, frivolezze, insulsaggini (che lo stesso Ionesco aveva ripreso da manuali di conversazione in lingua inglese), con un crescendo ripetuto, frenetico, come in una gara di imbecillità, i personaggi sono drogati dal loro stesso sproloquio, e si lanciano verso un delirio verbale fatto di suoni senza significato, introvabili in ogni tipo di dizionario linguistico.
È dunque la crisi del linguaggio, della comunicazione tra gli uomini, che Ionesco mette in scena nel suo “teatro dei luoghi comuni”, e il vaniloquio di questi fantocci non tanto vuol essere burla o parodia, quanto abbagliante rappresentazione di un mondo che gira a vuoto. La deriva della parola, del senso, della vita di una borghesia guitta, spenta, intrisa di luoghi comuni biechi e banali, una società stridula che emette miagolii languidi rimirando un dito che indica la luna.
Fedele al testo in larga parte, la regia di Castri si adatta perfettamente all’anti-commedia, dirigendo come burattini i cliché degli Smith e dei Martin. Le piccole concessioni evidenti che si prende sul testo sono la didascalia introdotta dal pompiere, fuori stile e poco british, e il giornale scosso dal Signor Smith invece che schioccare la lingua. Minuzie, s’intende, il ritmo vertiginoso che riesce a dare alla performance fila eccome, e cattura il pubblico trascinandolo nella girandola di nonsense.
Gli attori della Compagnia del Metastasio appaiono a loro agio dentro il testo e nella regia di Castri, che assegna loro personaggi conformi alle proprie corde attoriali. Il cast riesce in una buona performance corale, con i soliti alti e bassi, mantenendo incalzante il ritmo della recitazione, crescendo d’intensità, e creando maschere e movimenti scenici efficaci, con isolati eccessi caricaturali.
Spettatori partecipi e divertiti come non mai, tanto da far esplodere applausi a scena aperta e risate per tutta l’ora dell’anti-commedia.