Home Teatro Istruzioni per non morire in pace. Quando l’avanspettacolo si fa strumento

Istruzioni per non morire in pace. Quando l’avanspettacolo si fa strumento

Al Teatro della Pergola di Firenze anche molti studenti ad assistere a Istruzioni per non morire in pace, cabaret politico dal retrogusto brechtiano

La stirpe umana, ciclicamente, prova l’impulso di eliminare la prole. Carissimi padri, voi mi amate, ma se scoppierà una guerra, sarò spedito al fronte a farmi ammazzare. Farne un cabaret, della Prima Guerra Mondiale in questo caso, può avere un senso. La vita è bella e terribile. Distacco e lontananza, apparente frivolezza, momenti di distensione celano lo sgomento, la sensazione di impotenza che gran parte della popolazione nasconde, o porta con sé in trincea. Perché da sempre qualcuno, dall’alto, decide per noi, per il nostro presente e la nostra fine.

Claudio Longhi, regista del progetto Istruzioni per non morire in pace, ossia “tre capitoli sullo stralunato mondo della belle époque“, dirige un gruppo di interpreti preparati e affiatati, che della commedia dell’arte, il varietà, la rivista, l’avanspettacolo sfruttano le componenti comiche e satiriche con fare equilibrato e ponderato. Il gruppo è composto infatti da attori ma anche danzatori, cantanti, e in certi casi strumentisti, che navigano nelle buone acque dell’impostazione canora e musicale. I capitoli sono tre, quindi, Patrimoni, Rivoluzioni, Teatro, legati da fili conduttori che si sparpagliano in modo ordinato, in scene che si susseguono talvolta incalzanti, altre volte più sconnesse – almeno apparentemente.
Nel capitolo Teatro, è la saga di una famiglia di industriali ad essere messa sotto torchio, dove il padre e lo zio sono in urto mortale con i due figli, uno attore, l’altro viaggiatore.

E così durante pasti glaciali, preceduti da tremendi contrasti e seguiti da silenzi interrotti da uno scarafaggio kafkiano sul pavimento, il conflitto si fa bollente, sempre più, mentre i signori della guerra danno fuoco alle armi. I sogni si sfracellano contro l’avidità, il pacifismo contro il profitto, perché lo scopo di una carneficina mondiale è anche economico. Dopo aver raso al suolo si ricostruisce, ed è nel momento di transizione che si crea il benessere necessario a educare nuove masse di consumatori, e fomentare un crinale di accattivanti bisogni, inutili richieste, dove l’effimero e l’edonismo si fanno giganti, fino al successivo punto di rottura. Fino alla prossima guerra.

Tra i tanti validi momenti delle tre ore di messinscena, si distinguono gli stacchi di canto e ballo, quasi a inserirsi in un’atmosfera brechtiana, quasi a distogliere l’attenzione potenziandola allo stesso tempo. Da sola la lettura delle parole scritte da un ragazzo al fronte, con il candore estetico e emotivo che la caratterizza, vale lo spettacolo. L’obbrobrio, il sottile disagio sono prontamente interrotti da una manovra opposta, come la parodia di D’Annunzio, o l’incontro tra uno dei personaggi con la prostituta-spia – traiettorie che si aprono, per poi tornare alla strada maggiore.

Rivoluzione, pacifismo, maschere (vere, quelle indossate dagli attori, e metaforiche), capitalismo, ha senso parlarne ancora? Sì, e ha senso criticare la nostra stessa sfera d’azione, quella che i telegiornali ci propinano, senza però mai scavare. Il teatro aiuta a farsi domande, e a grattare la patina.

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