Isabelle Huppert si prende meritatamente la pioggia di applausi dedicatale dal pubblico del Teatro della Pergola di Firenze, a seguito di un’intensa prova d’attrice che l’ha vista ergersi a centro ipnotico per oltre un’ora, in Mary said what she said di Darryl Pinckney per la regia di Robert Wilson.
Un amaro destino quello di Maria Stuarda (Mary Stuart), fatto di fughe, prima da guerre anglo-scozzesi, poi da scontri religiosi tra calvinisti e cattolici, per concludersi tra le braccia di chi si professava amica, la cugina Elisabetta I regina d’Inghilterra, e che invece si rivelerà avversa, facendola imprigionare per 20 anni e infine decretandone l’orrenda morte.
Un destino crudele che alla morte di Elisabetta, nubile e senza figli, ha comunque arriso a Giacomo figlio di Maria, divenuto re, primo sovrano a riunire sotto la corona i due antichi regni di Scozia e Inghilterra. Una linea di sangue che si interruppe solo apparentemente con la morte di Maria, ma che continua tutt’oggi con la discendenza di tutti i reali, fino all’attuale regina Elisabetta II.
Nello spettacolo ci troviamo di fronte ad una Mary Stuart al termine dei suoi giorni di prigionia, in attesa di una pena che può soltanto alleggerirle il lungo martirio. Il suo monologo, dal testo di Darryl Pinckney, è un fluttuante andirivieni di ricordi, accuse, dubbi e peccati trattenuti; stretti nel suo corsetto, avvolti nell’abito nobiliare che ancora le resta. Il suo amore per la Francia, dove trovò accoglienza e ricevette l’educazione, alla corte di Caterina de’ Medici, è contrapposto al ripugno verso la Scozia, le sue lotte interne e quei complotti alla quale è dovuta soccombere.

Il minimalismo visionario di Robert Wilson ci consegna anche stavolta una pietra preziosa in chiaroscuro alla quale mirare. Guida la Huppert con movimenti rallentati, reiterati e biomeccanici, quasi una bambola in mano all’oscuro fato, avvolta nella nebbia di una vita troppo difficile da decifrare.
Azioni tanto plastiche e rarefatte da sembrare immobili silhouette che si animano e prendono forza, a tratti quasi come in un Noi io beckettiano, a suon di parole cadenzate, eccellenti luci e il meraviglioso sottofondo sonoro di Ludovico Einaudi.
Nonostante la lunga prigionia e l’imminente esecuzione, Isalbelle Huppert ci consegna una Mary Stuart statuaria, algida, ancora regale nelle vesti e nel portamento. Se le lente movenze appaiono già spettrali, la voce è tagliente e penetrante come la lama del boia. Sempre in precario equilibrio, già sospesa tra i due mondi, come una vana ombra, evoca visioni di un’inquietante dolcezza.