[rating=3] In penombra si intravede un uomo seduto e una donna dai lunghi capelli biondi, pareti scure e due sgabelli da pianista con altrettanti leggii e una manciata di bolle di luce che pendono dal soffitto, dando di volta in volta un po’ chiarore alla scena.
Poi arriva la voce.
L’uomo è appena rientrato in Austria per il funerale del suo amico di gioventù Wertheimer che si è suicidato. Questo evento innesca una serie di riflessioni che lo riportano ai tempi della scuola di Horowitz a Salisburgo, dove lui, Wertheimer e Glenn Gould si erano incontrati.
All’epoca erano tre pianisti giovani e pieni di belle speranze. Ma quando l’io narrante e Wertheimer ascoltano l’esecuzione di Gould comprendono che lui è un genio e loro semplici virtuosi. L’unica scelta possibile è l’abbandono della musica, ma mentre il narratore accetta questa rinuncia cercando nella scrittura un’alternativa, per Wertheimer segna l’inizio della sua discesa agli inferi. Wertheimer e Glenn.
Glenn è il genio. Per lui la vita non è altro che solitudine e ricerca: il desiderio di diventare un tutt’uno con il suo Steinway, di abolire ogni distanza tra il suo essere e i tasti per confondersi con le note delle “Variazioni Goldberg”di Bach. Questo vano tentativo di annullarsi fisicamente, viene interrotto da un ictus che lo sorprende mentre suona.
Wertheimer è invece “il soccombente”, come lo chiamava Gould, perchè è un individuo che andava sempre più a fondo. Perchè si è suicidato Wertheimer? Perchè lo ha fatto ad un albero a pochi metri dalla casa della sorella? Perchè i soccombenti sono esseri spietati che portano al fondo con loro anche le persone che amano, dirà lucidamente il narratore.
Il narratore incomincia a fare la sua indagine in maniera lucida e ossessiva sulle controverse personalità dei suoi amici, personalità dietro le quali si cela un desiderio quasi spasmodico di essere artisti. “Gli artisti non hanno cognizione della loro arte” dice Glenn. “Ero talmente disperato che diventai artista” sostiene Wertheimer. Chi è veramente l’artista?
Accanta a questo tema se ne dipana un altro in maniera altrettanto ossessiva: e la morte? “La morte è il malinteso più grande di tutti” dice Wertheimer. Entrambi questi esseri cercano di fuggire dalla gabbia che avvertono attorno a sè, che forse si sono inconsapevolmente costruiti.
Solitudine, ossessione, risentimento, fuga, forse nient’altro che variazioni dietro alle quali si cela uno stesso motivo: la morte.
Con una magistrale interpretazione il narratore-Herlitzsca riporta in scena queste ossessioni, ripete quasi come un mantra ad intervalli regolari “Variazioni Goldberg”. Lo farà trentatré volte tante quante sono le variazioni di Bach e quante sono le volte che vengono citate nel romanzo? Forse sì.
Il rumore della sua parola in scena riproduce la musica, il suo ritmo. La scrittura claustrofobica di Bernhard, priva di punteggiatura e con continue iterazioni è resa perfettamente da questo lungo monologo interiore del protagonista, dal suo interrompersi, soffermasi e poi ricominciare. Tanti climax discendenti che si rincorrono uno dietro l’altro, inframezzati soltanto dalle parole, anch’esse ripetitive della donna che si limita a dire “Io pensai” oppure “pensavo” oppure “quando lo vidi alla locanda”.
È la proprietaria della locanda invaghita di Werteimer? È la sorella di lui impazzita dopo il suicidio del fratello? Chissà.
Ed Herlitzsca e lei si alternano nello scrivere e nel disegnare convulsamente sulle pareti di ardesia che circondano questa stanza nera, in cui l’unico moto di colore è il verde del velluto di una vecchia sedia da dentista.
Una regia discreta, forse troppo, che lascia nelle mani del suo abile interprete il compito di plasmare le parole e farle diventare immagini reali.
E così lo spirito del testo è preservato nella sua interezza con tutta la sua carica di angoscia nella quale però esiste una via di fuga che il narratore ci indica, una via che nessuno dei suoi due amici ha percorso: “ciascuno di noi può e deve concedersi di vedere se stesso come un essere unico se non vuole cadere in balia della disperazione, ogni essere umano, comunque sia fatto, è un essere unico al mondo, io stesso me lo dico di continuo e con questo sono salvo”.